Prolungato utilizzo psicofarmaci

Egregi Dottori,
vorrei chiederVi un parere riguardo alla cura farmacologica che segue un mio caro amico (coetaneo) già da molti anni, almeno 6.
Il trattamento consiste in dosi quotidiane di Sertralina (50/100 mg) e di Benzodiazepine (non so esattamente quanto, ma credo una dose bassa) prescritte dal suo Neurologo. In passato è stato in psicoterapia per un quinquennio, conclusa dietro sua scelta perché ritenuta ormai inefficace e ritenendo che il suo problema (fobia sociale, ansia, insicurezza) fosse e sia tuttora esclusivamente di natura chimica.
Io penso che forse potrebbe cominciare a considerare un "cammino di uscita" da questa dipendenza, perché sì, all'inizio è certamente una cura efficace, ma si tratta pur sempre di farmaci e un loro uso così prolungato e invariato non credo che non abbia controindicazioni. Ogni tanto lo incoraggio a parlarne col suo Neurologo naturalmente, ma non lo sente che una volta all'anno, forse meno.
Sono un po' preoccupato per il fatto che lui tenda a non definirli "psicofarmaci", che non creino dipendenza, e sia convinto che il loro uso debba protrarsi tutta la vita per compensare le lacune chimiche che evidentemente ha.
Secondo Voi faccio bene a incoraggiarlo in tal senso?

E adesso una provocazione: premetto che ho sempre un po' di diffidenza delle prescrizioni mediche, specialmente nel campo della sofferenza psicologica. Non sostengo con ciò che tutti i medici siano in malafede e abbiano la prescrizione "facile" per compiacere l'industria dei farmaci, però a volte il sospetto mi è inevitabile. Cosa ne pensate?
Forse è un argomento troppo complesso da affrontare in questa sede, Vi ringrazio in anticipo per l'attenzione e saluto con cordialità.
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 43.5k 993 248
Gentile signore,

mi sembra che il suo amico abbia tutto il diritto di seguire le proprie cure con il medico di fiducia senza subire pressioni su queste basi. Per le seguenti ragioni:
- l'utilizzo non è prolungato, la cura procede a seconda delle caratteristiche della malattia
- la prima e l'unica dipendenza è quella dalla malattia e dalla sua naturale tendenza a persistere o ritornare. Le medicine prevengono questo decorso solo se mantenute.
- la categoria "psicofarmaco" è inesistente in termini scientifici, è una dizione magica che allude all'esistenza di un effetto artificiale sulla psiche, che, a differenza delle altre funzioni corporee, sarebbe intoccabile
- la psicoterapia non è essenziale se una cura farmacologica funziona ed è sufficiente, e NON serve per togliere i farmaci, se questa era l'implicazione nella sua osservazione

Riguardo alla provocazione, è possibile anche che il rischio di infarto sia esagerato per facilitare la prescrizione di cardio-farmaci. E' invece sicuro che le farmacie sono piene di prodotti tipo "integratori", "ricostituenti", "anti-invecchiamento", "rimedi naturali" di utilità ignota o nulla. Questo è un mercato che mai è oggetto di sospetti, forse perché è evidente, ma è un modo di essere turlupinati che piace al pubblico, perché supporta l'idea di non essere malati. Esiste anche il mercato della terapia non farmacologica facile, con frequenze di sedute plurisettimanali assolutamente arbitrarie e proprie di una tecnica più che di risultati statisticamente garantiti. Tenga poi presente che i privati hanno tutto l'interesse a usare prodotti funzionanti, quindi farmaci facili ma inutili sono poco convenienti per la libera professione. Per quanto concerne la dipendenza da farmaci, questa non esiste se non per le benzodiazepine, che la persnoa in questione assumerebbe a dosi basse. La cosa è specificata ovunque, e spesso i farmaci antidepressivi che rimpiazzano le benzodiazepine sono venduti dalle stesse industrie che vendono invece le benzodiazepine da eliminare.

Spero di essere stato esauriente.
Saluti

Dr.Matteo Pacini
http://www.psichiatriaedipendenze.it
Libri: https://www.amazon.it/s?k=matteo+pacini

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Dr.ssa Franca Scapellato Psichiatra, Psicoterapeuta 3.9k 197 21
Gentile utente, mi sembra che il suo amico abbia tratto vantaggio dalla terapia con sertralina, che è indicata per patologie come la fobia sociale e non dà dipendenza; è una cura che va assunta per anni, come infatti sta facendo il suo amico, sotto controllo medico, come sta facendo (si mantiene in contatto col neurologo).
Alcune persone migliorano con la psicoterapia, altre coi farmaci, altre ancora con una combinazione di entrambi; l'importante è che la cura funzioni e migliori la qualità di vita della persona.
Cordiali saluti

Franca Scapellato

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dopo
Utente
Utente
Gentili Dottori,
grazie per il Vostro riscontro. Vorrei premettere che le mie non sono pressioni, piuttosto delle riflessioni, quindi assolutamente controvertibili e nel pieno rispetto delle scelte personali. Riflessioni originate dal fatto che a distanza di anni non riscontro progressi significativi. E per progressi intendo azioni che seguono alle intenzioni.

Ognuno di noi ha propri desideri che consideriamo necessari per migliorare la qualità della vita: trovare o cambiare lavoro, avere una serena relazione affettiva, socializzare, imparare cose nuove, ecc. Ognuno ha la propria "cassetta degli attrezzi" per perseguire questi scopi, le proprie risorse caratteriali e biologiche. E ognuno ha la sua zavorra di paure.
A volte si ha bisogno di un aiuto, perché la paura di sbagliare è più forte del desiderio. Allora si ricorre agli amici, o ai familiari per un incoraggiamento, oppure ci si rivolge a uno specialista e può seguirne una terapia, o una cura farmacologica.

La mia preoccupazione, tornando allo specifico, è che il mio amico sia sempre più chiuso in se stesso e che ne soffra apparentemente sempre meno. Sostiene che sia tutto sotto controllo e che abbia le più convinte intenzioni per migliorare il suo stile di vita. Ma in alcune nostre conversazioni emerge tutta la sua immobilizzante paura e mi sono chiesto a cosa serve ingurgitare tutte quelle pillole? Lo vedo come dentro un limbo, nel quale i farmaci attenuano la sofferenza di base (la fobia sociale), ma contemporaneamente annebbiano pure il contatto con se stesso e con la sofferenza che deriva dall'isolamento.

Se è vero che la sofferenza è il segnale di un disagio, a volte non sarebbe meglio attraversarla per poter reagire, piuttosto che restare sospesi nell'immobilità?

Ripeto: con lui non faccio pressioni e naturalmente non gli parlo in questi termini, non voglio mortificarlo. Queste sono riflessioni che Vi sottopongo proprio per essere messe in discussione e per trovare suggerimenti preziosi. Gli amici sennò a cosa servono?
Auguro a tutti, compreso a me stesso, di saper fare buon uso della propria "cassetta degli attrezzi".

Ringrazio per ogni Vostro eventuale intervento e saluto.


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Dr.ssa Franca Scapellato Psichiatra, Psicoterapeuta 3.9k 197 21
Gentile signore,
lei dà per scontato, come molte persone del resto, che la terapia farmacologica provochi una specie di serenità artificiale che impedisce alle persone di crescere, un po' come i favolosi mangiatori di loto.Non è così, per fortuna, però in alcune persone il desiderio di cambiare non è così forte da far loro abbandonare una strada che già conoscono. Alcuni rimangono coi genitori fino a tarda età, o rinunciano a un lavoro interessante perché hanno paura, o subiscono un coniuge prepotente.Si lamentano, soffrono. Come amici vorremmo aiutarli (e a volte viene voglia di scrollarli) ma se non sono loro a scegliere di cambiare non c'è niente da fare.
Ai miei pazienti dico spesso che il farmaco è un salvagente: impedisce di essere travolti da un'angoscia paralizzante, ma a nuotare verso riva, a trovare le soluzioni, devono pensarci loro, con l'aiuto di quelli che scelgono come compagni di strada: amici, terapeuti, padri spirituali e via dicendo.
Cordiali saluti
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 43.5k 993 248
Ma non si capisce se si lamenta perché i farmaci sembrano non funzinoare bene, o se mette in campo quel concetto poco comprensibile per cui uno sta bene ma in realtà non sta bene nel profondo che non vuol dire niente. Se il suo amico è così come lo descrive non somiglia a una persona che si cura con successo per la fobia sociale, somiglia ad una persona che ha ancora buona parte del disagio prodotto dalla sua malattia, con farmaci che a seconda di cosa sono possono assolutamente non avere un'azione risolutiva (per esempio se sono tranquillanti).
Non usi espressioni tipo "ingurgitare queste pillole" che denotano solo una sua ostilità di base, per me incomprensibile, allo strumento. Non sta ingurgitando delle pillole, sta seguendo una prescrizinoe medica.
[#6]
dopo
Utente
Utente
Ringrazio la Dr.ssa Scapellato, che ha risposto anticipatamente a quello che il Dr. Pacini mi contesta: la mia ostilità di base all'idea di pillola come apportatrice di una serenità artificiale. Era questo il mio dubbio. Accetto quindi che non sia così e che il libero arbitrio sia sempre presente.

Il punto però è proprio questo: somiglia ad una persona che ha ancora buona parte del disagio (l'ansia) prodotto dalla sua malattia (la fobia sociale). Ogni persona è libera di isolarsi dal mondo esterno, di non accettare inviti, di passare le sue serate davanti alla tv, di rinunciare al confronto per l'ansia che ne scaturisce. Per quanto mi sembri un'immagine triste può essere comunque una scelta di vita degna di rispetto come qualunque altra. Ma se la stessa persona tradisce il suo apparente equilibrio con episodi di sofferenza, allora in me scatta l'allarme. Soprattutto se si tratta di una persona che conosco da almeno quindici anni e che ha tutte le carte in regola per vivere pienamente.

Non ho idea se i farmaci succitati abbiano o meno un'azione risolutiva, se sono dei salvagente dovrebbero però essere una soluzione temporanea per non affogare. Prima vedevo una persona che sceglie una vita tranquilla e rassicurante, ora vedo la sua sofferenza per la rinuncia a tutte le possibili gioie che solo l'interazione col mondo esterno può portare e temo un sempre più difficile recupero delle proprie risorse se non peggio: una ricaduta.

Ringrazio vivamente per la Vostra attenzione.
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 43.5k 993 248
Confermo quello che dicevo, però. Il risultato della cura della fobia sociale è più o meno l'opposto dell'isolamento e della rinuncia alle occasioni di vita. Altrimenti che cura è ?
naturalmente non sapendo la diagnosi precisa, né il tipo di cura è difficile dire dove c'è qualcosa che non torna.
[#8]
dopo
Utente
Utente
Posso quindi pensare che il Neurologo in questione, come qualsiasi professionista, prescriva un trattamento in base alle informazioni che raccoglie da esami e test che sottopone, ma principalmente dalla viva voce del paziente?

Posso attribuire quindi la responsabilità di una cura inefficace alle reticenze dello stesso paziente, che si rifiuta di affrontare un possibile conflitto di fondo non risolto? Ripenso alla psicoterapia interrotta...

Fino a che punto un Neurologo può intuire queste resistenze e sollecitare un approfondimento?

Mi rendo conto dei limiti di questo mezzo comunque straordinario e mi dispiace di non poter fornire abbastanza dati oggettivi se non alcune mie soggettive osservazioni e congetture.

Ringrazio, in particolare il Dr. Pacini, per l'attenzione e il tempo dedicato a questo sito e saluto con cordialità.
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 43.5k 993 248
"Posso attribuire quindi la responsabilità di una cura inefficace alle reticenze dello stesso paziente, che si rifiuta di affrontare un possibile conflitto di fondo non risolto?"
A scanso di equivoci, la psicoterapia non corrisponde a uno schema generico di conflitti irrisolti, questa è una teoria, a cui corrisponde una pratica spesso insondabile e senza limiti precisi di tempo né riferimenti precisi nella valutaizone dei risultati. Le tecniche psicoterapiche efficaci utilizzano soprattutto metodi per conseguire risultati, le teorie esistono ma sono la cosa meno importante.
Se il paziente si rifiuta di seguire una tecnica, ovviamente non ne può beneficiare, ma non è che parte del lavoro debba essere in carico al paziente, altrimenti significa semplicemente che le forme lievi guariscono da sole e quelle gravi non guariscono mai.
Saluti
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