Difficoltà ad accettare cambiamenti drastici

Due mesi fa, io e la mia famiglia (marito più bambino di 6 anni), ci siamo trasferiti nella città natale di mio marito, a circa 1200 km dalla mia famiglia d'origine.
Questo trasferimento è stato voluto da mio marito, in quanto non è riuscito ad adattarsi nella città in cui abbiamo convissuto per 7 anni (lontana 50 km dai miei genitori).
Ci siamo gestiti da soli fino ad ora, e questo ha comportato diverse rinunce, economiche ma anche sociali, ma eravamo liberi.
L'aiuto dei nonni c'era, ma era limitato alla necessità.
Riuscivamo a vedere i miei genitori settimanalmente e i suoi venivano a trovarci, le ferie erano giustamente dedicate alla sua famiglia.
Credo che questo continuo dividerci tra due posti ci abbia distrutto come persone.
Lui è stato male e ha chiesto un supporto psicologico.
Io non sono mai stata bene, vivendo questi anni come un torto che compivo quotidianamente bei confronti di mio marito e ho pensato che rinunciare a passioni, amicizie, spazi personali e dedicare la mia esistenza esclusivamente a lui fosse giusto.
Adesso inizio ad accusare il colpo di questo grande cambiamento subìto.
In questa realtà, non ho ancora una mia identità.
Ho cambiato lavoro, lavoro meno, ma ovviamente questo ha inciso notevolmente sul mio stipendio, dimezzandolo.
Volevo prendere il buono della vicenda e occuparmi di più di mio figlio.
Cosa non possibile perché ahimè viviamo con i suoi genitori nell'attesa di trovare un affitto ragionevole (pare ci stiamo arrivando).
I suoi sono persone stupende ma dittatoriali e sono in mezzo a ogni aspetto della nostra vita.
Dall'educazione di nostro figlio, alla gestione della nostra vita, se non con un'imposizione vera e propria, con commenti e giudizi.
Se provo a comunicare il mio disagio, mio marito mi urla contro il suo malessere (dice "stavo male lì e sto male qui perché tu ti lamenti") e poi chiama i suoi genitori a rapporto dicendo che è esausto e urla contro anche ai suoi genitori, che imputano al mio malcontento il motivo di tale reazione.
In questo modo il clima si inasprisce.
In tutto ciò lasciamo fuori nostro figlio da questi problemi, un bimbo a cui cerco di garantire il massimo.
Vorrei dargli, se non una mamma felice, almeno una mamma serena.
Alla fine taccio e soffro.
Ho smesso di comunicare il mio dolore ormai da tempo, perché ottengo solo urla e recriminazioni.
Mio figlio ormai completamente gestito dai nonni, non ho più la gioia dei momenti da sola, ad esempio di andarlo a prendere a scuola e raccontarci le cose, io assumo sempre più le sembianze di un contorno scomodo.
Potrei andarmene ma mio figlio che fine farebbe, sballottato tra 2 città a 1200 km?
Non vedo alcuna soluzione.
A volte penso che farei meglio a sparire e lasciare tutto a loro, probabilmente soffrirei meno.
Mi sento completamente svuotata, priva di identità, di progettualità.
Come si comunica efficacemente un disagio?
Come ci si fa ascoltare?
La felicità è una chimera?
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 185
Gentile utente,
i casi come il suo sono quelli in cui una consulenza specialistica appare non utile, ma indispensabile. Al momento infatti lei è sopraffatta dallo scoramento, come evidenziano anche le sue domande finali.
Si ha l'impressione, dalla sua descrizione della vostra vita fin qui, che più che un progetto autonomo di coppia lanciata a realizzare il proprio benessere e quello dei figli (ossia a costruire quella felicità di cui accoratamente ci chiede se esista) voi abbiate vissuto un legame immaturo di sottomissione ai genitori, legame che anziché evolvere nella direzione di una sempre maggiore libertà si è fatto più stretto, fino all'attuale convivenza.
Suo marito, scrive, "non è riuscito ad adattarsi nella città in cui abbiamo convissuto per 7 anni".
Anziché coltivare progetti, amicizie, vacanze, svago, avete diviso il vostro tempo tra le due famiglie d'origine, e questo, come scrive, vi ha "distrutto come persone".
Chi e cosa ha determinato questo mancato adattamento, il vostro mancato ingresso nella realtà adulta di persone e di coppia?
"Lui è stato male e ha chiesto un supporto psicologico".
Per quanto tempo è stato seguito? Con quale esito? Un uomo che non riesce ad adattarsi nella città dove lavora e dove si è costruito una famiglia presenta un problema, transitorio o permanente che sia. Il disturbo è stato diagnosticato e opportunamente curato? Lei è stata messa al corrente dal terapeuta sui più idonei comportamenti per aiutare suo marito?
Sembra di no, dal momento che al contrario ha danneggiato anche sé stessa, partendo da un senso di colpa che non si spiega e finendo col rinunciare a "passioni, amicizie, spazi personali e dedicare la mia esistenza esclusivamente a lui".
Quale torto pensava di compiere quotidianamente nei confronti di questo adulto incapace di vivere lontano da papà e mamma, di assumersi responsabilità verso sua moglie e suo figlio e di godersi la vita?
Da tutte queste sue rinunce e sottomissioni viene fuori il presente.
Oggi penso le sia evidente che un disturbo dell'umore non muta, cambiando clima, specie se chi ne è affetto continua a cercarne la 'colpa' al di fuori di sé stesso.
Di più da qui non vorrei dire. La invito però caldamente a cercare un aiuto qualificato per dipanare questa matassa dai fili grigi, sempre più opprimente per tutti quelli che in essa finiscono invischiati.
Se vuole aiutare marito e figlio, cominci col cercare subito un consulente, iniziando col vedere chiaro in sé stessa.
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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dopo
Utente
Utente
Gentilissima, ringrazio tanto per la risposta. La mancanza di autonomia della coppia è nata perché la nostra è stata una gravidanza non cercata (causa errata diagnosi di infertilità per PCOS) ma accolta con amore, per cui non avevamo ancora un'autonomia economica. Io ho lavorato subito, a 3 mesi dal parto, proprio per garantire una sussistenza alla coppia. Mio marito invece ha avuto uno fase di stallo e ha gestito il bambino nei primi mesi mentre io lavoravo 8-18 per garantire alla famiglia un alloggio autonomo e una vita libera da aiuti economici, che non ho mai voluto per questione di dignità personale. Mio marito è in cura da anni per una diagnosi di "disturbo di ansia generalizzato" trattato farmacologicamente da due anni. Prima di conoscerci faceva psicoterapia. Per questo suo disturbo ha cambiato varie volte vita e città. Il collega che lo cura ha valutato anche me, per 3 sedute. Non ha riscontrato disturbi psichici e mi ha consigliato di accontentare mio marito perché nella coppia è colui che ha più difficoltà. Non ha più attacchi acuti di ansia,lavora, ma ha comunque difficoltà nella gestione delle discussioni (se io esprimo un mio disagio viene etichettato come causa del suo malessere e si interrompe la comunicazione perché alza il tono di voce e mi sovrasta, oppure resta zitto per giorni). Ci siamo divisi tra le due famiglie proprio perché all'inizio non eravamo autonomi economicamente. Successivamente, si è iniziato a dare quasi per scontato il dividersi il tempo, da parte soprattutto dei nostri genitori.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 185
Gentile signora,
il ricorso all'aiuto di uno psicologo, che continuo a prospettarle, non è necessario solo in presenza di "disturbi psichici". La stessa legge istitutiva del nostro ordine professionale assegna allo psicologo, fin dall'art. 1, "le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico", ossia il vastissimo ambito dell'aiuto, consulenza, valutazione, supporto, sviluppo e incremento di capacità, sostegno nelle relazioni familiari e di lavoro, etc.
In lei al momento c'è una marcata sofferenza che non trova soluzione coi mezzi ordinari del dialogo tra coniugi. Al contrario, ci scrive che ogni sua segnalazione di disagio viene da suo marito etichettata "come causa del suo malessere e si interrompe la comunicazione perché alza il tono di voce e mi sovrasta, oppure resta zitto per giorni".
Questo non aiuta nessun membro della famiglia a risolvere i problemi, e meno ancora a costruire il benessere e l'affetto.
La sua attuale sottomissione non può essere ciò che la invitava a praticare il terapeuta di suo marito; tanto più che nessun malato migliora sentendosi "viziare" nella malattia fino a farla diventare un difetto comportamentale che gli aliena gli affetti e riduce la sua considerazione di sé stesso.
Il disturbo d'ansia generalizzato va trattato con gli idonei mezzi farmacologici e terapeutici, ma il paziente per primo deve avere l'intenzione di non cedere alla malattia, e le persone più vicine a lui devono mantenere -o recuperare- la loro serenità e la loro determinazione di adulti.
Ora, lei descrive la sua vita coniugale così: "Io non sono mai stata bene, vivendo questi anni come un torto che compivo quotidianamente bei confronti di mio marito e ho pensato che rinunciare a passioni, amicizie, spazi personali e dedicare la mia esistenza esclusivamente a lui fosse giusto".
Ma il suo torto qual era stato? Quello di aver avuto un figlio? E la scelta di rinunciare ad ogni suo interesse, come avrebbe potuto giovare?
Per altro, lei rinuncia a tutto, e suo marito si allarga in pretese sempre più ampie. Già prima di sposarsi, a quel che ho capito, "Per questo suo disturbo ha cambiato varie volte vita e città".
Ma davvero lei crede che il disturbo d'ansia generalizzato permetta a quelli che ne soffrono tutti questi capricci?
Seguono poi una serie di contraddizioni: un uomo che a causa di un disturbo psichiatrico non è in grado di lavorare, tanto meno può essere in grado di gestire un lattante di tre mesi; lei ha lavorato subito per non pesare sui genitori, ma a distanza di anni si è trovata a convivere coi suoceri e a rinunciare a mezzo stipendio; per dignità personale ha voluto una vita libera da aiuti economici ma poi afferma: "Ci siamo divisi tra le due famiglie proprio perché all'inizio non eravamo autonomi economicamente".
Conclude infine scrivendo che successivamente "si è iniziato a dare quasi per scontato il dividersi il tempo, da parte soprattutto dei nostri genitori".
E voi due non avevate alcun progetto, alcun obiettivo o interesse vostro? E poi, mi scusi, che strani genitori sarebbero, quelli che per fornire un contributo economico a figli adulti se li vogliono tenere vicini?
Vede bene, signora, che il suo nucleo familiare non ha proceduto verso la libertà e la crescita, ma si è ripiegato su di sé fino a scivolare all'indietro.
"Non vedo alcuna soluzione", concludeva amaramente la sua prima email.
Non pensa che i fili della sua vita vadano districati e ravviati da qualcuno con un'esperienza specialistica e una visione meno tormentata?
Molti auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

[#4]
dopo
Utente
Utente
Gentile dottoressa, ho avuto modo di riflettere. Certamente mi rivolgerò ad uno specialista per aiutarmi a districare questa matassa. Non posso cambiare gli altri ma posso intervenire su di me. Sono certa che l'eccessiva accondiscendenza non sia la soluzione ai disagi di nessuno, dal canto mio mi è stata imputata la"colpa" di aver cambiato la vita dell'altro decidendo di portare avanti la gravidanza, ma nell'oggettività, io non ho nessuna colpa perché non ho obbligato nessuno a seguirmi nella decisione. Devo sicuramente riuscire a scrollarmi questo senso di colpa atavico per disagi che esistevano prima di me. Forse iniziare a pretendere qualcosa di più da me stessa, per me stessa. Riflettendo, credo che i nonni si siano inseriti in maniera così prepotente vedendo la nostra "debolezza" di coppia, ma le cose possono cambiare, anche se non posso farlo da sola. Spero che una visione esterna specialistica mi dia gli strumenti per scegliere il percorso più giusto da intraprendere. Nel frattempo, ringrazio in maniera veramente sentita per l'accurata esamina e la sensibilità con cui mi sono state poste delle domande che mi hanno indotto a riflettere.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 185
Gentile utente,
sono contenta di aver potuto contribuire a fare emergere qualche riflessione che in fondo in lei già era presente.
Un uomo che guardando il proprio bambino può far sentire in colpa la madre per non avergli impedito di venire al mondo, be', dà da pensare.
Inoltre io ritengo che tutti dovremmo essere sempre consapevoli delle nostre responsabilità naturali: del concepimento sono responsabili tutti e due i sessi, mentre della prosecuzione della gravidanza la scelta è di chi la vive col proprio corpo e con i propri sentimenti: non è un caso che la legge dica così.
Si può sostenere che la legge attui una violenza contro il sentimento di paternità, nel caso di interruzione della gravidanza voluto solo dalla donna; ma certamente nel caso della sua prosecuzione la scelta dev'essere della madre, specie se non chiede nulla al partner.
Il negare questo è immaturità, capriccio infantile.
Come lei dice bene, in lei è presente un "senso di colpa atavico per disagi che esistevano prima di me". La psicologia infatti parla di trasmissione transgenerazionale del trauma.
Inoltre la sofferenza personale spesso aspira ad un amore risarcitorio: se abbiamo particolarmente bisogno di essere amati, facciamo del nostro partner una figura genitoriale, e per garantirci il suo attaccamento cerchiamo una persona a sua volta portatrice di sofferenze, sperando in un reciproco compenso.
La sua osservazione: "Non posso cambiare gli altri ma posso intervenire su di me" è assolutamente corretta.
Tuttavia il patto matrimoniale ha la natura di un contratto in cui si promette la solidarietà, oltre alla fedeltà, la coabitazione etc. (parlo del matrimonio civile, non sapendo se siete religiosi).
In quest'ottica si deve chiedere all'altro di rispettare il patto, e nel caso di malattia di curarsi seriamente, oppure considerarlo contrattualmente inadempiente, eventualmente attuando anche una separazione.
Tutta questa parte volontaria delle nostre azioni viene disattesa dalla cultura italiana, che è stata definita da un gruppo di psicologi una cultura "della grande madre", nel segno dell'indulgenza verso i maschi. Ci si sposa facendo finta che le promesse siano dei pro-forma senza valore, si rompe il matrimonio in maniera isterica correndo verso nuove avventure risarcitorie o vendicative, anziché fare della separazione un momento di riflessione in vista di un legame rinnovato su basi migliori.
Concludo segnalandole che molto spesso chi va in terapia finisce per migliorare non solo la propria ricerca del benessere, ma quella dell'intera famiglia. All'inizio il suo cambiamento può determinare uno scossone, ma uno scossone salutare, perché dall'acquiescenza alla malattia, riconduce alla ricerca della salute.
Auguri di cuore.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com