Neuroscienze cognitive e psicoanalisi: se Freud avesse avuto la risonanza magnetica funzionale...

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Dr. Alessandro Raggi Psicologo, Psicoterapeuta

Nonostante l’iniziale difficoltà a conciliare posizioni di partenza e prospettive radicalmente differenti, negli ultimi anni si assiste a una convergenza sempre più stretta tra psicoanalisi e neuroscienze, specialmente da quando queste ultime, grazie alle opportunità tecnologiche più recenti, hanno iniziato a indagare la complessità della psiche profonda, da sempre appannaggio degli psicoanalisti

«Oggi psicoanalisi e neuroscienze convergono sempre di più nel dimostrare l’importanza dei meccanismi inconsci che connettono psiche e cervello»

(Prof Claudio Mencacci, 2012, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze A.O. Fatebenefratelli - Milano e Presidente Società Italiana di Psichiatria)

 

Nonostante l’iniziale difficoltà a conciliare posizioni di partenza e prospettive radicalmente differenti, negli ultimi anni si assiste a una convergenza sempre più stretta tra psicoanalisi e neuroscienze, specialmente da quando queste ultime, grazie alle opportunità tecnologiche più recenti, hanno iniziato a indagare la complessità della psiche profonda.

 

Dal paradigma computazionale alla mente intersoggettiva

A riproporre le teorie di Freud e Jung, ponendo nel contempo una critica molto forte a parte delle psicologie cognitivo-comportamentali, stavolta non è la psicoanalisi stessa, ma ci pensa direttamente una delle branche della scienza considerate tra quelle “forti” e che, paradossalmente, si è sviluppata inizialmente proprio come alleata “empirica” delle psicologie cognitive: la neuroscienza cognitiva. In quest’ambito, uno dei lavori più autorevoli e attuali è quello portato avanti da uno tra i più famosi neuroscienziati del mondo, Vittorio Gallese, che assieme a Massimo Ammaniti ha scritto “La nascita dell’intersoggettività” (2014).

Gallese, docente di Neurofisiologia all’Università di Parma, già insignito nel 2007 con il prestigioso Grawemeyer Award per la psicologia è colui che assieme a Leonardo Fogassi e Giacomo Rizzolatti ha identificato i famosi “neuroni specchio”, scoperta definita da V.S. Ramachandran [1] «per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia»[2].

neurone-specchio
neurone-specchio

C’è da aggiungere che negli ultimissimi anni, almeno per gli addetti ai lavori, risulta evidente quanto le scoperte delle neuroscienze stiano contribuendo in maniera vigorosa a sostenere su base empirica le teorie psicoanalitiche (Mancia 2008) elaborate oltre un secolo fa ed evolute nelle più recenti formulazioni della clinica psicodinamica contemporanea. 

 

Cosa sono le neuroscienze cognitive?

Lo studio scientifico della soggettività e dell’intersoggettività senza limitarsi alle pur brillanti intuizioni introspettive degli approcci psicoanalitici, può essere considerato il principale tra gli obiettivi delle neuroscienze cognitive attuali.

L’inizio delle neuroscienze cognitive, evolutesi dalla ricerca neuroscientifica più tradizionale, può essere fatto coincidere con la fine del ventesimo secolo e l’avvento degli elaboratori elettronici (Oliverio, 2004), i computer, ritenuti dal cognitivismo di allora in grado di simulare il funzionamento mentale umano. Questa prospettiva, seppur con accenti molto differenti, continua a essere attuale all’interno del sistema teorico di riferimento di molte delle teorie cognitivo-comportamentali.

In Liotti (2001) ad esempio, ove si toccano in termini comparativi l’approccio psicoanalitico con quello cognitivo-evoluzionista sul tema specifico della “coscienza”, si evidenzia il concetto di “elaborazione implicita” come «alternativa cognitivista al concetto psicoanalitico classico dell’inconscio pulsionale, per lo studio delle dinamiche mentali» (ibdem).

Dunque se da una parte è vero che (ibidem) «Anche nell’ambito cognitivo-evoluzionista, sia pure per strade notevolmente diverse da quelle della psicoanalisi dell’intersoggettività, (…) si è raggiunta la stessa conclusione fondamentale: l’idea che studiare la mente individuale isolata è del tutto illusoria (…)», è altrettanto evidente quanto le premesse epistemologiche di partenza tra cognitivismo e psicoanalisi siano comunque tuttora ancora distanti.

Alcuni filoni delle scienze psicologiche cognitiviste più recenti, hanno comunque nel tempo sviluppato concetti più marcatamente relazionali rispetto ai cognitivismi degli anni ’60, sino a includere in taluni casi modelli operativi più tipicamente psicoanalitici, come transfert e contro-transfert, seppure in un’accezione qualitativamente differente da quella psicoanalitica.

L’avvento del ventunesimo secolo è stato ad ogni modo contrassegnato dal progresso incalzante delle neuroscienze cognitive, sino ai più recenti sviluppi delle tecnologie di brain imaging, come la risonanza magnetica funzionale (FMRI), in grado di portare lo studio (non invasivo) del cervello umano sino a limiti sino a poco fa del tutto impensabili. Queste ricerche potrebbero dunque, auspicabilmente, contribuire ad avvicinare ancora di più posizioni teorico-cliniche tuttora differenti. 

 neuroimaging
neuroimaging (FMRI) 

L’intersoggettività e la coscienza

Nel loro più recente lavoro (Gallese e Ammaniti, 2014), gli autori si soffermano, su un concetto cardine delle teorie psicodinamiche: l’”intersoggettività”. Questa nozione è da sempre oggetto di controversie tra gli scienziati psicodinamici e il mondo scientifico cognitivista che seppur con sfumature meno radicali dei comportamentisti che nemmeno credono nell’ inconscio (e dunque una coscienza), ne nega pur sempre l’importanza. L’inconscio infatti per i cognitivisti, secondo Imbasciati (2005) seppure esistesse, non sarebbe esplorabile se non con il metodo analitico che essendo basato quasi esclusivamente proprio sull’intersoggettività, non offrirebbe per questo sufficienti garanzie di attendibilità. Nel fermento di ricerche e paradigmi che da sempre contraddistingue le numerose prospettive cognitiviste, come ad esempio in quella evoluzionista, alcuni autori pur prendendo le distanze dal comportamentismo che considera «la coscienza come un epifenomeno delle attività mentali» (Liotti, 2001), utilizzano operativamente il concetto di “inconscio” conferendogli tuttavia un importanza minore di quanta ne abbia nelle teorie psicoanalitiche.

 

Ma cos’è l’intersoggettività?

Questo concetto è utile a descrivere le «interazioni e gli scambi tipicamente umani che si sviluppano fin dai primi giorni di vita, in un processo che conduce alla capacità di comprendere la mente degli altri» (Gallese e Ammaniti, 2014). Nel libro già citato, l’intersoggettività viene affrontata dal punto di vista delle conoscenze nel campo delle scienze neurobiologiche allo scopo di divulgare le più recenti scoperte sul comportamento del cervello nelle interazioni umane. La teoria psicoanalitica, che da sempre enfatizza il ruolo delle figure genitoriali (e/o di accudimento) nello sviluppo psichico successivo del soggetto, viene posta a confronto con le ricerche empiriche che osservano la nascita della matrice intersoggettiva nel bambino nell’ottica delle neuroscienze cognitive. Nel testo si tratta inoltre il tema della relazione con l’altro, della coscienza (e dell’inconscio) che la psicoanalisi contemporanea studia anche nei suoi aspetti “transpersonali” (Comelli e Faucitano, 2008), quelli che per Jung già dall’inizio della sua Opera, sono di natura “collettiva” (Jung, 1936). 

 

Psicoanalisi e intersoggettività

Essendo molta parte della clinica psicodinamica basata sull’intersoggettività, le conferme empiriche fornite dalla ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive possono avere importanti ricadute anche sul piano pratico. Una delle più evidenti differenze tra le pratiche cognitivo-comportamentali e le pratiche cliniche psicodinamiche (freudiane, junghiane, adleriane, lacaniane, che siano) verte difatti proprio sul valore della relazione che per Gallese (2013/a) è qualitativamente differente da quello delle scienze cognitiviste, poiché secondo quest’autore: la «la scienza cognitiva classica è portatrice di una visione solipsistica della mente».

Il paziente nella clinica psicodinamica non è mai “oggetto” di un trattamento, ma è egli stesso soggetto nella cura. Questa nozione è radicalmente differente anche dall’idea di “paziente attivo” e partecipe di alcuni modelli terapeutici cognitivisti. Non si tratta di distinzioni meramente filosofiche, ma di un tipo di approccio al sintomo completamente differente. Nel contesto cognitivo-comportamentale, infatti, il sintomo è per lo più visto per come “il problema” da affrontare e da risolvere, mentre la psicoanalisi insegna che il sintomo è espressione di un malessere più profondo che prima di essere “trattato” richiede ascolto e comprensione a livello intersoggettivo.

In alcuni più recenti filoni della terapia cognitiva il sintomo non viene direttamente affrontato, ma rimane pur sempre la questione centrale da “risolvere”. Per la psicoanalisi, qualunque sia la prospettiva di riferimento, il sintomo ha invece sempre un significato profondo e non va pertanto “risolto”. La risoluzione sintomatica può tuttavia, come sosteneva ad esempio Lacan, avvenire in sovrappiù.

Per questo in psicoanalisi paziente e analista formano una diade inestricabile ove i processi di transfert e controtransfert pongono l’uno e l’altro sul medesimo terreno intersoggettivo, dove non c’è uno che “fa la terapia” su un altro, non c’è un oggetto della terapia, uno che insegna e l’altro che apprende; bensì due soggetti che cercano un oggetto comune nella dinamica intersoggettiva e interdipendente nella quale uno dei due (l’analista) si muove in maniera più consapevole senza per questo rinunciare alla propria trasformazione. Ecco il vero significato di intersoggettività in psicoanalisi, ed ecco come lo studio della funzione evolutiva dei neuroni specchio assieme alle altre recenti scoperte neuroscientifiche, sembra sostenere le intuizioni clinico teoriche degli orientamenti psicodinamici. 

 

Psicologia analitica e intersoggettività

La psicologia analitica junghiana si rifà al "mysterium coniunctionis" (Jung, 1955-56), concetto che coincide di fatto con l'intersoggettività, secondo il quale la relazione travalica i confini dell’Io per descrivere un processo relazionale fondato su un orizzonte che include l’altro come elemento inscritto in un processo psichico interindividuale. In Italia è sicuramente Silvia Montefoschi a divulgare maggiormente il paradigma intersoggettivo junghiano soprattutto quando descrive la relazione psicoanalitica come il prototipo di rapporto che passa dalla modalità di relazione “interdipendente” a quella “intersoggettiva” (Montefoschi, 1977).

Questioni teorico-cliniche cruciali della cultura psicoanalitica come i concetti di proiezione, identificazione proiettiva, rimozione, dopo l’iniziale cauto confronto con le neuroscienze ove si intravedevano già a inizio secolo scoperte comparabili con la teoria psicoanalitica (Moccia, Solano, 2009) trovano oggi conferme empiriche ancora più solide nelle neuroscienze cognitive attraverso i risultati degli esperimenti sull’intersoggettività. Si tratta, infatti, di posizioni che implicano il superamento del dualismo soggetto-oggetto, sino a considerare nozioni come Identità e Soggetto come parte di un insieme più esteso: il .

Le menti umane nella prospettiva della psicologia analitica, non sono menti isolate, per quanto possano pur essere interdipendenti tra loro, bensì avrebbero la possibilità di interagire intersoggettivamente in un sistema che abbraccia tutte le interrelazioni tra soggetti. Il superamento del dualismo e dell’interdipendenza tra soggetti, porta alle sue più estreme conseguenze a comprendere meglio concetti junghiani come la sincronicità, ovvero la possibilità che soggetti differenti, pur essendo fisicamente separati in realtà siano parte di un'unica dimensione intersoggettiva, nella quale possono verificarsi eventi che non seguono la linearità causa-effetto, ma una logica ove il nesso tra gli eventi può anche essere di natura a-causale. 

 

La mente funziona come un computer?

La teoria psicoanalitica già a partire da Freud intuì la differenza qualitativa tra l’esperienza subiettiva e il suo correlato neurofisiologico e la sostanziale continuità tra psiche e soma, per la quale: «L'Io è anzitutto un'entità corporea» (Freud, 1923). Il sogno di Freud però, ovvero quello di veder fondata la psicoanalisi su solide fondamenta biologiche dimostrate empiricamente, non poteva essere realizzato per la mancanza di un adeguato sviluppo della ricerca neuroscientifica del tempo.

Il progetto freudiano di giungere a una “psicologia per i neurologi” (Pribram e Gill, 1978) ossia la possibilità di tracciare uno schema completo del funzionamento del sistema nervoso, che rendesse conto di quei processi psichici che egli aveva individuato studiando l’isteria e altre manifestazioni psicopatologiche, era per l’epoca davvero prematuro. Freud pertanto abbandonò l’intento di proseguire nella ricerca di un ponte verificabile tra biologico e psichico, e si riservò da allora di continuare a definire l’apparato mentale utilizzando prevalentemente materiale clinico e un linguaggio metaforico, adeguato agli scopi che la psicoanalisi si proponeva.

Successivamente e per molti anni la psicologia comportamentista è stata influente al punto di modificare la definizione stessa di psicologia che da “scienza della mente” divenne “scienza del comportamento umano” (Searle, 2004), sostenendo l’idea che solo i comportamenti osservabili potessero essere oggetto di studio da parte della psicologia: il mentale, lo psichico, non potevano essere compresi né studiati se non attraverso il comportamento. Questo tipo di concezione, tuttora alla base di alcuni approcci clinici residuali, intuitivamente implausibile sin dalla sua prima formulazione, è ormai quasi all’unanimità considerata non più adeguata a rispondere ai troppi interrogativi che essa stessa pone.

mente-umana

Se dunque il comportamentismo più radicale sembra già da un po’ avviato al tramonto, Gallese e Ammaniti nel loro lavoro (2014) giungono a criticare anche alcune teorizzazioni della psicologia cognitiva persino nelle sue più recenti formulazioni. Fatte salve le dovute differenze tra i vari filoni di ricerca scientifica, come ricordano stesso alcuni importanti autori di questo orientamento «alla base della terapia cognitiva è che l’elaborazione dell’informazione è una caratteristica distintiva dell’essere umano» (Clark, Hollifield, Leahy, Beck, 2010).

Il cognitivismo, infatti, considera tutt’oggi la mente umana alla stregua di un “computer”, un serbatoio di simboli astratti da elaborare e processare dal punto di vista informativo. Anche nelle evoluzioni più recenti delle concezioni cognitiviste, come quella già ricordata di stampo evoluzionistico (Liotti, 2001), benché non si assumano le posizioni biologiste di altri cognitivismi, di fatto la mente umana viene a “funzionare” come un elaboratore di informazioni.

Il cognitivismo nei suoi assunti di base, assume di fatto posizioni riduzionistiche per le quali la mente umana è in qualche modo il “prodotto” della funzione cerebrale. L’esperienza soggettiva avrebbe per questo tipo di concezione un correlato diretto di tipo fisico e il nostro cervello opererebbe come un elaboratore di informazioni alla stregua di una potente macchina logico computazionale, prima o poi perfettamente imitabile da una sorta di “intelligenza artificiale” (Dennett 2009).

In tal modo la coscienza si trova ad essere “ridotta” (di qui l’accezione riduzionista di questo tipo di pensiero) a epifenomeno cerebrale. Il mentale sarebbe così un surrogato del cervello e la coscienza esisterebbe solo perché esiste il suo correlato biologico. Il modello cognitivista «abbraccia una prospettiva biopsicosociale, è suffragato da recenti risultati provenienti dalle neuroscienze che dimostrano la stretta connessione tra alcune strutture cerebrali, le funzioni cognitive ad esse associate e il loro effetto modulatorio sulle emozioni». (Clark, Hollifield, Leahy, Beck, 2010).

Altri neuroscienziati, tra cui Gallese, hanno invece una visione della psiche umana molto più simile a quella proposta dalla psicoanalisi, secondo la quale «la coscienza è una caratteristica biologica del cervello allo stesso modo in cui la digestione è una caratteristica dell’apparato digestivo» (Searle, 2009). In questa prospettiva, se considerassimo il solo cervello con i suoi neuroni, senza tener conto del resto del corpo e della relazione intersoggettiva con l’altro, di essa non vi si troverebbe traccia.

Nella visione neuroscientifica proposta da Gallese (2014) si sottolinea quanto affermare che la coscienza possa essere semplicemente un’attività neuronale, non aiuterebbe a sbarazzarci del vissuto singolare e del tutto irriducibile che ciascun soggetto ha della “propria” coscienza in quanto persona. L’irriducibilità del vissuto soggettivo e intersoggettivo è oggi uno dei filoni di studio delle neuroscienze cognitive più promettenti e interessanti.

L’essere umano dunque, da quanto emerge da queste ricerche, non sembrerebbe elaborare le informazioni o per lo meno non si limiterebbe a elaborare informazioni alla stregua di un computer, per quanto potente questo possa essere, la facoltà mentale umana parrebbe bensì intrinsecamente e qualitativamente differente da quella computazionale.

 

Le conseguenze cliniche della ricerca neuroscientifica

Empatia, relazione con l’altro, memoria, visione, inconscio, rimozione, psiche come sistema unitario mente-corpo, assieme a molte altre, sono le possibili aree di convergenza tra teoria psicoanalitica e neuroscienze cognitive (Mancia, 2008). Per questo, sempre secondo Gallese (in Lavazza, 2014):

«Le scienze della psiche oggi non possono non confrontarsi con le neuroscienze. Allo stesso tempo, le neuroscienze cognitive non possono ridursi a una traduzione neurodeterministica della natura umana, ma devono mettere al centro della propria ricerca la pienezza dell’esistenza umana e l’esperienza che ognuno di noi ne trae. Per farlo, il contributo della psicoanalisi, così come quello della psicologia e delle scienze umane, è secondo me imprescindibile».

Come sviluppo del concetto di intersoggettività c’è il concetto di intercorporeità, ovvero la mutua risonanza di comportamenti sensori-motori intenzionalmente significativi, che è la conseguenza più attuale della scoperta dei neuroni specchio e più in generale è la più recente acquisizione delle neuroscienze basata su evidenze empiriche. Ciò ha condotto alla scoperta della cosiddetta “simulazione incarnata” (embodied simulation, Gallese e Sinigaglia, 2011) che rappresenterebbe il modello attraverso il quale realizziamo la nostra attitudine relazionale umana. 

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Vittorio Gallese

La relazione intersoggettiva che viene delineata dagli studi citati, si inserisce nel filone di pensiero psicoanalitico che procede dall’intrapsichico verso il soggettivo, sino all’intersoggettivo. Non va dimenticato, infatti, che storicamente è proprio la psicoanalisi a riportare nell’alveo della scienza la dimensione soggettiva, esclusa, fino a prima del XX secolo, dal metodo d’indagine scientifico. Successivamente la dimensione intersoggettiva inizia a imporsi nell’ambito teorico-clinico psicoanalitico come costrutto metapsicologico prevalente (Mitchell, 1983). L’intersoggettività in questo caso non è solo “relazione” con l’altro, ma è un concetto molto più esteso, affine all’idea di una mente che può esistere solo in quanto “mente relazionale”.

Secondo Gallese «L’architettura funzionale della “simulazione incarnata sembra costituire una caratteristica di base del nostro cervello, rendendo possibili le nostre ricche e diversificate esperienze intersoggettive, essendo alla base della nostra capacità di empatizzare con gli altri».  E ancora: «Uno degli obiettivi delle neuroscienze cognitive è comprendere la connessione tra i meccanismi di funzionamento del sistema cervello-corpo e le nostre competenze cognitive sociali. Ma il tema dell’intersoggettività è inscindibilmente legato a quello del Soggetto. Lo studio neuroscientifico dell’intersoggettività non può, quindi, eludere il problema della soggettività, e dell’esperienza che la costituisce» (Gallese, 2013/b).

Se dunque già da qualche anno sapevamo che la psicoterapia può produrre modificazioni permanenti nella struttura cerebrale (Solms e Turnbull, 2002), ci stiamo sempre più avvicinando a comprendere anche la natura di queste modificazioni e i risultati sembrano confermare molte delle ipotesi psicoanalitiche (Kandel E.R., 2007) e soprattutto forniscono un supporto empirico senza precedenti agli strumenti clinici specifici dell’intervento psicodinamico.

 

Bibliografia

  • Clark A. , Hollifield M. , Leahy R. , Beck J. S. (2010), in Gabbard G. O. (a cura di), Le Psicoterapie. Teorie e modelli d’intervento, Milano, Raffaello Cortina.
  • Comelli F. , Faucitano S. (2008), Etnopensieri: esperienze di lessico gruppali fra pratiche cliniche, sociali e culturali, Milano, Mimesis.
  • Dennett D.C. (2009), Coscienza, che cosa è, Roma-Bari, Laterza.
  • Freud S. (1923), L'Io e l'Es e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri (2000).
  • Gallese V., Sinigaglia C. (2011), “What is so special about embodied simulation? - Trends in Cognitive Sciences, 15 (11): 512-519.
  • Gallese V. (2013/a), Neuroscienze cognitive: Tra cognitivismo classico e embodied cognition, 30-06, www.psychiatryonline.it
  • Gallese V. (2013/b), “Corpo non mente. Le neuroscienze cognitive e la genesi di soggettività ed intersoggettività.” Educazione Sentimentale, 20: 8-24.
  • Gallese V., Ammaniti M. (2014), La nascita dell’intersoggettività, Milano, Raffaello Cortina.
  • Imbasciati A. (2005), psicoanalisi e cognitivismo, Roma, Armando.
  • Jung C. G. (1936), Il concetto di inconscio Collettivo, Milano, Bollati Boringhieri (1965-2007).
  • Jung C. G. (1955-56), Mysterium Coniunctionis, Milano, Bollati Boringhieri (1965-2007).
  • Kandel E. R. (2007), Psichiatria, Psicoanalisi e Nuova Biologia della Mente, Milano, Raffaello Cortina.
  • Lavazza A. (2014), “Cervello, il suo motore è negli affetti”, 21.05, L’Avvenire.
  • Liotti G. (2001), Le opere della coscienza. Psicologia e psicoterapia nell’ottica della prospettiva cognitivo-evoluzionista”, Milano, Raffaello Cortina.
  • Mancia M. (2008), Psicoanalisi e Neuroscienze, Milano, Springer Verlag.
  • Mitchell J. (1983), Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, Bologna, Il Mulino (1986).
  • Moccia G., Solano L. (2009), Psicoanalisi e neuroscienze. Risonanze interdisciplinari, Milano, Franco Angeli.
  • Montefoschi S. (1977), L'uno e l'altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico, Milano, Feltrinelli.
  • Oliverio A. (2004), “Neuroscienze: basi biologiche dei processi mentali”, Enciclopedia del Novecento, 3° suppl., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
  • Pribram K. H., Gill M. M. (1978), Freud neurologo. Studio sul «progetto di una psicologia», Milano, Bollati Boringhieri.
  • Roudinesco E. (1999), Pourquoi la psychanalyse? , Paris, Fayard.
  • Searle J.R. (2004), La Mente, Milano, Raffaello Cortina (2005).
  • Solms, M., Turnbull, O.(2002) Il cervello e il mondo interno. Introduzione alle neuroscienze dell'esperienza soggettiva, Milano, Raffaello Cortina (2004).

 

Note

[1] Direttore del Center for Brain and Cognition e Professore al Psychology Department and Neurosciences della University of California di San Diego, una delle "cento persone più importanti del nostro secolo per la rivista Newsweek.

[2] http://edge.org/3rd_culture/ramachandran/ramachandran_p1.html

 

Data pubblicazione: 04 giugno 2014

Autore

alessandro.raggi
Dr. Alessandro Raggi Psicologo, Psicoterapeuta

Laureato in Psicologia nel 1997 presso La Sapienza - Roma.
Iscritto all'Ordine degli Psicologi della Regione Campania tesserino n° 5670.

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