Dubbio doppia diagnosi

Buonasera a tutti, nel corso degli ultimi anni ho ricevuto due diagnosi, da professionisti diversi, che concordano tra di loro nel dire che ho due disturbi di personalità: borderline ed evitante.


Io non mi sento così.


Non so come fare perché a sto punto comincio a pensare che forse sono io che non mi capisco (che è possibilissimo eh!).


Per comprendere meglio ho letto molto e ho fatto molte ricerche in merito.
Però no, continuo a non sentirmi così.


Cosa dovrei fare?
Pensare a un terzo parere mi sembra quasi accanimento.
Forse dovrei solo accettare il fatto di avere questi due disturbi di personalità, e basta.


E prima che qualcuno dica E solo una diagnosi! oppure Che importa, lascia stare! , per me una diagnosi corretta è importante, serve a dare un nome e una chiave di lettura al mio vissuto quotidiano.


Gia la prima diagnosi mi aveva lasciata perplessa e ne parlai sia qui https://www.medicitalia.it/consulti/psicologia/1046635-dubbio-diagnosi.html ma anche con la terapeuta che mi segue.
Da qui la decisione di fare un secondo percorso diagnostico che pero' ha portato allo stesso risultato.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.4k 193
Gentile utente,
leggendo questa e la precedente richiesta di consulto mi sembra che i suoi dubbi nascano dall'aver ricevuto diagnosi da fonti imperfette, e di avere altrettanto imperfettamente tentato di interpretare queste diagnosi, leggendo molto, come dice, parlandone con la terapeuta che la segue, e anche chiedendo qui a noi.
Lei scrive: "per me una diagnosi corretta è importante, serve a dare un nome e una chiave di lettura al mio vissuto quotidiano".
Già questo punto di vista merita un chiarimento con lo specialista che la segue e un monitoraggio costante del "vissuto quotidiano", che forse lei ritiene debba essere congruente con la diagnosi ricevuta.
Non mi soffermerò su questo, ma su ciò che "diagnosi", nel campo del disturbo mentale, significa, e soprattutto sul modo in cui la diagnosi viene fatta.
Il termine "diagnosi" è comune al campo psichico e al campo somatico per alcune somiglianze che non sono però delle uguaglianze.
In entrambi i campi la diagnosi è il nome che si dà ad una malattia che si presenta per lo più con determinati sintomi, ossia manifestazioni avvertite dal paziente, e segni, ossia evidenze che si palesano all'occhio del clinico.
Nel campo somatico alla diagnosi si accompagna quasi sempre un riscontro visibile attraverso analisi, radiografia, visione diretta (pensi a un foruncolo o ad una frattura esposta), in quello mentale invece no.
Per farle un esempio, vomito e dolore nella regione ventrale destra sono sintomi che possono essere determinati dall'appendicite, ossia dall'infiammazione acuta di quel tratto del colon che viene chiamato "appendice". Questa diagnosi medica ha un riscontro rilevabile sia con analisi cliniche, che possono manifestare la presenza di un'infezione, sia con l'osservazione dell'appendice con strumenti come l'ecografia, sia con la visione diretta della stessa mediante intervento chirurgico.
Così è per la maggior parte delle diagnosi mediche. Il covid per esempio si manifesta con determinati sintomi (tosse, febbre, difficoltà di respirazione) ma si ha la certezza della presenza di questo virus tramite i reagenti che lo rilevano, le analisi dell'espettorato, etc.
Nei casi che ho citato e in moltissimi altri di natura medica (quindi somatica, organica) la diagnosi ha un riscontro visibile e una causa conosciuta: si tratta perciò di una diagnosi "eziologica", cioè basata sulle cause.
Nel campo mentale, solo recentemente le neuroscienze vanno rivelando delle funzioni del cervello così delicate, microscopiche e in perenne mutamento grazie ad elementi come il pensiero, che forse ad un tipo di diagnosi analoga a quella che individua il batterio o la lesione non arriveremo mai.
La diagnosi della disfunzione mentale è perciò quasi esclusivamente sui sintomi. Studi complessi, in rapida evoluzione e non sempre concordi, raccolgono questi sintomi, ne ricavano delle diagnosi e delle indicazioni terapeutiche.
Per farle ancora un esempio, un trauma nella sfera organica può provocare effetti visibili, dal livido fino alla frattura; un trauma psichico non ha effetti rilevabili, né a occhio nudo né con una radiografia. Insomma, l'appendicite si vede, la personalità borderline no.
Come dunque si fanno le diagnosi in campo mentale? Con una serie di test che analizzano idee, emozioni, storia pregressa, reazioni dell'individuo, ma soprattutto con il colloquio clinico.
Il periodo di valutazione di un* psicolog* può durare a lungo perché non basta un incontro per verificare le rigidità o le fissazioni del paziente, la resistenza ad uscirne, il grado di danno che queste disfunzioni mentali causano nella vita della persona e le strategie per superarle.
Ora, lei ci scrive che ha fatto diagnosticare il suo disturbo da due diversi diagnosti (i quali mi sembra concordino), però è seguita da una terza curante. Credo di capire che i primi due le abbiano somministrato dei test (il Minnesota, forse?) che non tutti gli psicologi usano.
In ogni caso, la semplice somministrazione di test, anche lunghi e complessi, non dà una diagnosi inoppugnabile, come sarebbe quella organica di morbillo, per esempio, ma orienta a considerare la presenza di un certo funzionamento mentale che va poi discusso e analizzato con il curante per capirne la gravità, la pervasività, l'incidenza sulla vita del paziente, i fattori di resilienza o di peggioramento, e infine gli strumenti di cura.
Non so se sulla sola base di test a lei siano stati diagnosticati i due disturbi di personalità che cita. La comorbilità tra i disturbi mentali è comune, nel senso che alcune manifestazioni del disagio mentale, che hanno nomi diversi ma forse la stessa causa, si presentano insieme. Non è questa la sede per spiegargliene la ragione.
Anche la malattia singola difficilmente si trova in ogni paziente con tutti i sintomi presentati nei manuali, e solo quelli. La stessa diagnosi non dà luogo alle stesse limitazioni: guardi il film "A beautiful mind", sulla vita di un genio schizofrenico.
La sua fiducia nella diagnosi è quindi mal riposta, sia per la natura della diagnosi in campo mentale, sia perché unico giudice dell'aderenza della diagnosi al suo caso specifico è la persona che attua con lei un colloquio clinico costante: la sua psicologa.
Lei non si riconosce in queste diagnosi, ma se ha ragione o se invece le sue sono delle resistenze mentali, solo la sua curante può dirlo. Così come può spiegarle che una diagnosi è un'indicazione, non una prescrizione, e che serve a correggere il comportamento disfunzionale, non ad autorizzarlo.
Buone cose.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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Utente
Utente
Grazie per la spiegazione sulla differenza tra diagnosi in campo medico e diagnosi in campo psicologico. Mi era già abbastanza chiara ma è sempre bene ribadirla.

"La diagnosi della disfunzione mentale è perciò quasi esclusivamente sui sintomi."

Immagino anche sui segni che il terapeuta individua al di là della sintomatologia. E in questo forse non differisce dalla diagnosi medica. Forse una differenza importante sta nel fatto che alla diagnosi psicologica mancano le indagini strumentali obiettive. Si ok i test ma sono per lo più autosomministrati e anche se alcuni hanno scale di controllo e validazione immagino, non so - non è il mio campo, che sia possibile "imbrogliarli" in qualche modo. Mentre è difficile artefare una banale analisi del sangue per esempio.

"Ora, lei ci scrive che ha fatto diagnosticare il suo disturbo da due diversi diagnosti (i quali mi sembra concordino), però è seguita da una terza curante."

No, non mi sono spiegata bene. Il primo percorso diagnostico, risalente ad ormai 3 anni fa, è stato fatto dalla psicologa che mi segue tutt'ora. Ma non sono da tre anni in terapia. Ho interrotto volontariamente per diversi motivi - penso anche le mascherine (!) - dopo un paio di mesi dal primo contatto a fine 2021, poi ho ripreso ad inizio 2024, sempre con la stessa terapeuta.

Il secondo l'ho fatto presso il Terzo Centro (Roma) a settembre 2024.

"Credo di capire che i primi due le abbiano somministrato dei test (il Minnesota, forse?) che non tutti gli psicologi usano"

Del primo percorso ricordo poco, è passato diverso tempo. Ricordo sicuramente il PID5 e la SCID-II, perché ne abbiamo riparlato recentemente con la curante, e forse pure l'MMPI2.

Del secondo ricordo le 80 e più pagine del file con i test e il colloquio diagnostico in cui mi hanno fatto la SCID-II e forse altre domande strutturate ma non saprei dire quali. Nel secondo percorso i test fatti sono stati:

WHODAS 2.0
LPFS
SCL90-R
IIP
PNI
NPI
ASRS
PAI
PID-5
BDI II
TAS
IVAM
MSAS

"La sua fiducia nella diagnosi è quindi mal riposta, sia per la natura della diagnosi in campo mentale, sia perché unico giudice dell'aderenza della diagnosi al suo caso specifico è la persona che attua con lei un colloquio clinico costante: la sua psicologa."

La mia psicologa continua ad essere convinta della validità della sua diagnosi iniziale e anche di quella successiva fatta non da lei. Solo recentemente, dopo mia insistenza, ha tirato fuori questo concetto di "alto funzionamento" che però a quanto ho capito non è una vera e propria categoria diagnostica quindi lascia un po' il tempo che trova, a mio avviso.

"Così come può spiegarle che una diagnosi è un'indicazione, non una prescrizione, e che serve a correggere il comportamento disfunzionale, non ad autorizzarlo."

Mi perdoni ma mi sfugge il senso di quello che ha scritto. Io non voglio autorizzare niente. Per capirci, non sto cercando una scusa per eventuali mi***te che potrei fare oggi o domani o ancora che ho fatto in passato. Di tutte le ca***te che ho fatto nella vita me ne sono sempre assunta la responsabilità.

Il mio obiettivo e' cercare di capirmi meglio, tutto qui.
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Dr. Marco Grosso Psicologo 16
Gentilissimo utente,

grazie per aver condiviso la tua esperienza con così tanta apertura. Comprendo quanto possa essere difficile confrontarsi con una diagnosi, specialmente quando non risuona con il proprio vissuto personale.

La diagnosi è uno strumento, non una definizione immutabile. È utile per identificare pattern di pensiero e comportamento che possono influire sulla qualità della vita, ma non definisce il tuo valore o chi sei come persona. Il fatto che tu abbia già riflettuto e fatto ricerche in merito mostra una grande capacità di introspezione e voglia di capire meglio te stesso/a.

Prova a:
1. Rivedi il contesto delle diagnosi
Le diagnosi dipendono dal contesto in cui sono state fatte. È possibile che le osservazioni dei professionisti siano state influenzate da momenti specifici della tua vita o da situazioni che allora emergevano con forza. Parlarne nuovamente con chi ti ha seguito potrebbe offrire ulteriori chiarimenti.
2. Esplora la tua percezione
Il fatto che non ti identifichi con queste diagnosi è un punto importante. Può essere utile lavorare con un terapeuta che ti accompagni nell’esplorare questo scarto tra come ti percepisci e come sei stato/a descritto/a. La terapia non serve solo per confermare una diagnosi, ma anche per comprendere meglio il tuo vissuto.
3. Un possibile terzo parere
Pensare a un terzo parere non è accanimento, ma potrebbe essere un’opportunità per avere una visione più ampia. Questo professionista potrebbe aiutarti a capire meglio il quadro generale, riconsiderare gli aspetti diagnostici o offrirti una nuova prospettiva.
4. Accettare, ma non arrendersi
Accettare una diagnosi non significa arrendersi a essa. Serve piuttosto a capire come alcuni aspetti del tuo funzionamento possano essere gestiti per vivere meglio. Un’etichetta non è mai definitiva: ciò che conta è come usi le informazioni per prenderti cura di te stesso/a.

Se ti senti pronto/a, potresti considerare un percorso terapeutico non focalizzato solo sulla diagnosi, ma sulla tua storia, i tuoi bisogni e il tuo benessere globale.

Ti auguro di trovare le risposte che stai cercando e, soprattutto, un percorso che ti permetta di vivere in sintonia con te stesso/a.

Rimango a disposizione per ulteriori confronti.

Dr. Marco Grosso
Iscritto all'Associazione Italiana Psicologi (AIP)
Psicologi in Farmacia (ANPIF)