Sindrome evitante o fobia sociale...un approccio euristico

Premetto che mi ritengo una persona perfettamante equilibrata e razionale nella elaborazione delle informazioni sociali, anche se sono da sempre molto introverso ed ho difficoltà ad instaurare relazioni al di fuori di ambiti circoscritti e controllati (famiglia,lavoro,luoghi di ritrovo, etc.). In più di un'occasione mi capita di essere eccessivamente attivo nella sorveglianza riguardo al giudizio che gli altri possono avere di me, giustificabile anche dal ristretto ambiente di provincia in cui vivo, e che ovviamente acuisce oltremodo la mia inabilità a relazionarmi in modo corretto. Da ciò deriva, con frequenza episodica ma allarmante (per gli altri, ma anche per me), la possibilità di una interlocuzione provocatoria che instauro con il prossimo e che mi porta ad essere percepito come ingiustificatamente aggressivo e scontroso. L'acquisizione di nuove abilità sociali è un obiettivo che ricerco tutte le volte che sento di dovermi isolare, esponendomi a situazioni ambientali chiaramente sfavorevoli o rischiose, pur comprendendo (lo farei anch'io?) che andare ad un'occasione di ritrovo pubblico senza la possibilità di instaurare legami o trovare momenti di complicità e condivisione con chi è presente non fa che acuire le mie difficoltà ed aumentare il rischio di una sempre maggiore frustrazione. Questi aspetti complessi e problematici del mio carattere non mi hanno consentito fino ad ora di avere relazione amicali serie (giusto un paio con persone particolarmente pazienti e sensibili), nè tanto meno di sentirmi accettato all'interno di un ambiente familiare più allargato (escludo i familiari più stretti), percependo costantemente una loro difficoltà di comprendere e tollerare chi non è stato abituato (educato?) a relazionarsi con gli altri ed a sviluppare abilità sociali che troppo spesso si danno per scontate. Non cerco diagnosi volanti o deontologiche esortazioni a rivolgermi ad uno specialista (non gli darei più fiducia di quella che ripongo nei tanti professionisti che la pratica clinica 'obbliga' ad occuparsi di casi del genere), quanto la possibilità di comprendere se questa consapevolezza ed un approccio di maggiore tolleranza verso i pregiudizi degli altri possono portarmi a migliorare questo stato di cose. Grazie per la risposta.
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Dr.ssa Valeria Randone Psicologo, Sessuologo 17.4k 317 528
1- "Non cerco diagnosi volanti o deontologiche esortazioni a rivolgermi ad uno specialista"

Purtroppo non ci sono altre strade, quando le difficoltà sono così radicate e profonde, non ci sono altri mezzi terapeutici.
Prima si eroga una diagnosi, poi un protocollo terapeutico

2- (non gli darei più fiducia di quella che ripongo nei tanti professionisti che la pratica clinica 'obbliga' ad occuparsi di casi del genere),
Altrimenti si tratterebbe di un amico che, se pur empatico e simpatico, non ha gli strumenti per occuparsi di lei.
Il professionista sceglie questo mestiere con scienza e coscienza, non è obbligato, lo fa perché lo ha scelto.
Le sue riflessioni appartengono alla sua problematica.


3- quanto la possibilità di comprendere se questa consapevolezza ed un approccio di maggiore tolleranza verso i pregiudizi degli altri possono portarmi a migliorare questo stato di cose.

No.

Cordialmente.
Dr.ssa Valeria Randone,perfezionata in sessuologia clinica.
https://www.valeriarandone.it

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dopo
Utente
Utente
La ringrazio per la pronta risposta dottoressa, anche se mi rendo conto che non sia facile uscire dagli schemi di un protocollo di approccio al paziente cui la mia domanda cercava di sfuggire. Una voce amica e comprensiva ogni tanto fa pure bene sentirla. Cordiali saluti!
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