I miei mi hanno messa in gabbia e ora non so come uscirne

Ho 34 anni e sono una docente precaria con ambizioni lavorative accademiche.
Prima dei miei 30, ricordo di essere stata felice: adoravo più di me stessa l'ambiente universitario, ero felicemente fidanzata ad un brillante dottore ed ero circondata di amici, sogni e possibilità.
Ricordo che avevo una fiamma che ardeva nel mio petto, desiderosa di continuare la mia formazione con corsi, master, dottorati.
Ero lanciatissima.
Mi ero finalmente creata il mondo che volevo sin da quando ero piccola.

Nel giro di tre mesi perdo tutto.
Il giorno dopo la discussione della mia tesi magistrale, ad una mese dall'inizio della convivenza, su pressione di mia madre ho lasciato il mio ragazzo in maniera molto traumatica, avendo visto crollare d'improvviso le mie certezze su di lui, un narcisista ammaliatore.
Dopo poco tempo, ho scoperto l'ennesimo tradimento di mio padre, questa volta nascosto dai suoi genitori, fatto quando noi avevamo grossissimi problemi economici.
Lo considero un nemico.
Dopo qualche settimana mio padre ha perso il lavoro con un mutuo per una seconda casa da pagare, fittata a dei farabutti morosi.
Mi sono attivata come potevo, ho donato i miei soldi ai miei per far fronte alle spese, ho supportato mia madre nella fase di accettazione del tradimento e mi sono occupata della causa di sfratto degli inquilini morosi: quanta ansia!
Sono passati tre anni e ora sto male.
Penso al mio ex, non ho relazioni di amicizia considerevoli, molte le ho perse perchè non mi sono state vicine quando ne avevo bisogno.
Vivo ormai come fossi un'estensione dei miei.
Mi sento tutt'oggi prigioniera, non mi sento libera e quel che reputo il peggio è che per loro è normale che io debba basare la mia intera vita sulle loro problematiche.
Sono stufa di dover farmi carico dei loro problemi.
Ho sempre vissuto un contesto famigliare problematico: i miei hanno sempre litigato ai limiti della violenza, con mio padre sempre in giro per il mondo e mia madre, passivo aggressiva, a casa a sacrificarsi per dei figli che non avrebbe voluto (e aggiungerei dovuto) avere.
La mia storia è stata costellata di rifiuti, gravata da senso di inadeguatezza, se non addirittura vergogna, inculcato da mia madre per la quale io non avevo capacità di espressione.
Inoltre erano praticamente all'ordine del giorno i paragoni con altre presone più magre, belle e vincenti di me.
i paragoni avvenivano sempre con figli di professionisti che potevano contare su una solida base sociale ed economica; mentre io potevo contare solo su me stessa e quello che il mio cognome porta avanti di me (purtroppo non una buona considerazione) con conseguenze sociali ben immaginabili.
Questo ha fatto maturare in me un senso di rivalsa nei confronti della mia comunità che mi ha portato a capofitto nello studio.
E a voler fuggire via.
Ma non so pi come fare.
Come eliminare questo senso di oppressione?
Facendo leva su una quasi sopita volontà di voler fare carriera?
che fine ha fatto la mia ambizione e brama di libertà?
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 182
Cara utente,
il fatto che lei cominci a sentirsi esasperata del clima invischiante in cui è vissuta potrebbe darle finalmente lo slancio per liberarsene.
Io non so della sua famiglia se non quello che lei ci scrive, ma ecco l'immagine che mi rimanda: degli egoisti lamentosi, pronti ad aggrapparsi ai figli anche a rischio di affossarli, pronti a chiedere affetto e attenzioni senza però darne, pronti a scaricare le proprie frustrazioni insultando quelli stessi che dovrebbero sostenere e aiutare, e pretendendo tuttavia di essere sostenuti e aiutati da loro.
Se entrerà finalmente nell'ottica di potersi liberare di tutto questo, lo faccia subito.
Non vada cercando rivalse, una fulgida carriera o altro di questo genere (soldi, prestigio sociale) se sono ancora il compenso delle frustrazioni da lei subite. Inizi piuttosto a pensare che molte delle idee e dei comportamenti tra i quali è vissuta erano sbagliati e provocavano infelicità.
Mi preoccupa la sua frase: "quel che reputo il peggio è che per loro è normale che io debba basare la mia intera vita sulle loro problematiche".
In pratica lei dice che è ancora succuba del giudizio, dell'opinione, delle critiche e delle lusinghe dei suoi. Questa è l'ancora pesante che rischia di tenerla all'infinito in un porto infido dalle acque torbide.
Solo lontana, in un'altra casa, occupandosi di sé stessa, lei realizzerà quella serenità che è molto superiore alla ricerca di compensi per l'infelicità patita.
Uno psicologo può sostenerla validamente in questo cammino.
Io le faccio molti auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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