Interruzione terapia
Buonasera a tutti.
Ho da poco concluso una terapia strategica breve con pochi se non nulli miglioramenti.
Probabilmente non mi sono impegnata abbastanza in questo percorso (durato all’incirca 4 mesi) ma il terapeuta mi ha detto che ciò è dovuto al fatto che io ho dei problemi più ampi che necessiterebbero di un percorso di psicoterapia ad ampio spettro.
Gli ho dunque chiesto di poter proseguire il trattamento con lui ma, con mia grande sorpresa, mi ha detto che ciò non era possibile.
In primis perché io non mi sono rivolta a lui da privato ma tramite un centro medico e poi perché ci sarebbero problematiche logistiche (da quello che ho capito non ha uno studio nella città in cui c’è questo centro) e relazionali.
Non ho ben capito cosa abbia voluto intendere con relazionali.
È possibile che non abbia voglia di lavorare con me?
Allora perché non ha interrotto prima il percorso?
Poi, chiedo a quanti di voi lavorano anche presso dei centri medici: c’è qualche clausola contrattuale che impedisce al professionista, una volta terminato il percorso con un paziente, di proseguire presso il suo studio privato magari per analizzare altri aspetti non emersi nel percorso breve?
Ho da poco concluso una terapia strategica breve con pochi se non nulli miglioramenti.
Probabilmente non mi sono impegnata abbastanza in questo percorso (durato all’incirca 4 mesi) ma il terapeuta mi ha detto che ciò è dovuto al fatto che io ho dei problemi più ampi che necessiterebbero di un percorso di psicoterapia ad ampio spettro.
Gli ho dunque chiesto di poter proseguire il trattamento con lui ma, con mia grande sorpresa, mi ha detto che ciò non era possibile.
In primis perché io non mi sono rivolta a lui da privato ma tramite un centro medico e poi perché ci sarebbero problematiche logistiche (da quello che ho capito non ha uno studio nella città in cui c’è questo centro) e relazionali.
Non ho ben capito cosa abbia voluto intendere con relazionali.
È possibile che non abbia voglia di lavorare con me?
Allora perché non ha interrotto prima il percorso?
Poi, chiedo a quanti di voi lavorano anche presso dei centri medici: c’è qualche clausola contrattuale che impedisce al professionista, una volta terminato il percorso con un paziente, di proseguire presso il suo studio privato magari per analizzare altri aspetti non emersi nel percorso breve?
Gentile utente,
non è molto chiaro quello che ci riferisce circa le parole del suo terapeuta;
mi sembra di aver compreso che lei vorrebbe condurre una nuova terapia con lo stesso curante, ma al di fuori del centro medico nel quale il professionista opera.
Per quale ragione non vuole continuare nello stesso studio dove si è svolta la prima terapia?
Il motivo per il quale il terapeuta le ha negato questa possibilità potrebbe essere nel fatto che non è un libero professionista ma si trova in regime di parziale dipendenza dal centro medico (è giovane?); non ha quindi una sua sede e soprattutto trova scorretto sottrarre un guadagno, sia pure parziale, al centro che gli fornisce sistemazione e clienti.
Quindi forse il problema relazionale è con i suoi "superiori": nulla che implichi il rapporto con lei.
Per verificare questa ipotesi provi a chiedere al professionista di continuare le sedute presso lo stesso centro medico.
Questa "dipendenza" del professionista psicologo da altri è una novità che accomuna gli psicologi ai fisioterapisti e ad altre figure sanitarie.
La sua domanda mi dà modo di chiarire al pubblico qualcosa sulle piattaforme che offrono psicologi "bravi, bravissimi, a costo minimo", che oggi pullulano in rete.
Cercare i propri curanti su queste piattaforme anziché sull'albo o sui siti online dei professionisti stessi è una scelta pericolosa. Non è un'agenzia fondata a scopo di lucro che può dire se un certo terapeuta è "il più bravo" e così via. L'utente ha il diritto/dovere di documentarsi su siti imparziali, come appunto l'albo nazionale degli psicologi, oppure può mettere in rete la sua domanda per intercettare qualche risposta dei professionisti che si occupano di quella problematica, per esempio leggendo i consulti su blog come Medicitalia e altri, o sui siti privati dei professionisti stessi.
Cercare il proprio curante sulle piattaforme ha inoltre un secondo inconveniente: gran parte dell'onorario viene trattenuto dall'organizzazione, con l'ovvia conseguenza di una tariffa non proporzionata all'esperienza del professionista, e con una certa dose di frustrazione di quest'ultimo, che se è molto giovane si vede attribuire, per una seduta che l'utente paga sessanta o settanta euro, la paga oraria di una domestica.
Spero che questo non sia il suo caso, e che il suo curante faccia semplicemente parte di uno staff con scopi e funzioni professionali condivisi: studio in comune, intervisione e così via.
Solo lui può chiarirlo.
Ci tenga al corrente, se le fa piacere.
non è molto chiaro quello che ci riferisce circa le parole del suo terapeuta;
mi sembra di aver compreso che lei vorrebbe condurre una nuova terapia con lo stesso curante, ma al di fuori del centro medico nel quale il professionista opera.
Per quale ragione non vuole continuare nello stesso studio dove si è svolta la prima terapia?
Il motivo per il quale il terapeuta le ha negato questa possibilità potrebbe essere nel fatto che non è un libero professionista ma si trova in regime di parziale dipendenza dal centro medico (è giovane?); non ha quindi una sua sede e soprattutto trova scorretto sottrarre un guadagno, sia pure parziale, al centro che gli fornisce sistemazione e clienti.
Quindi forse il problema relazionale è con i suoi "superiori": nulla che implichi il rapporto con lei.
Per verificare questa ipotesi provi a chiedere al professionista di continuare le sedute presso lo stesso centro medico.
Questa "dipendenza" del professionista psicologo da altri è una novità che accomuna gli psicologi ai fisioterapisti e ad altre figure sanitarie.
La sua domanda mi dà modo di chiarire al pubblico qualcosa sulle piattaforme che offrono psicologi "bravi, bravissimi, a costo minimo", che oggi pullulano in rete.
Cercare i propri curanti su queste piattaforme anziché sull'albo o sui siti online dei professionisti stessi è una scelta pericolosa. Non è un'agenzia fondata a scopo di lucro che può dire se un certo terapeuta è "il più bravo" e così via. L'utente ha il diritto/dovere di documentarsi su siti imparziali, come appunto l'albo nazionale degli psicologi, oppure può mettere in rete la sua domanda per intercettare qualche risposta dei professionisti che si occupano di quella problematica, per esempio leggendo i consulti su blog come Medicitalia e altri, o sui siti privati dei professionisti stessi.
Cercare il proprio curante sulle piattaforme ha inoltre un secondo inconveniente: gran parte dell'onorario viene trattenuto dall'organizzazione, con l'ovvia conseguenza di una tariffa non proporzionata all'esperienza del professionista, e con una certa dose di frustrazione di quest'ultimo, che se è molto giovane si vede attribuire, per una seduta che l'utente paga sessanta o settanta euro, la paga oraria di una domestica.
Spero che questo non sia il suo caso, e che il suo curante faccia semplicemente parte di uno staff con scopi e funzioni professionali condivisi: studio in comune, intervisione e così via.
Solo lui può chiarirlo.
Ci tenga al corrente, se le fa piacere.
Prof.ssa Anna Potenza
Riceve in presenza e online
Primo consulto gratuito inviando documento d'identità a: gairos1971@gmail.com
Utente
Salve Dottoressa,
Allora, vengo a chiarire la questione. Questo professionista opera presso un centro medico in cui ci sono svariate figure, tra cui neurologi. Lui è specializzato in un disturbo specifico (di cui io sono affetta) e che normalmente si risolve in poche sedute (massimo 10). Noi siamo andati ben oltre il termine previsto e, non avendo ottenuto benefici, mi ha proposto di continuare con un collega (o una collega) del centro stesso, visto che lui presso questo centro si occupa solo di uno specifico disturbo.
Si, è giovane, ma facendo qualche ricerca in rete ho scoperto che riceve anche presso il suo studio privato che però è ubicato in un’altra città.
Credo che sia un collaboratore (dipendente?) di questo centro ma al contempo esercita la libera professione nel suo studio.
Non discuto l’interruzione della terapia, semplicemente mi chiedo perché non voglia proseguire con me nel suo studio privato. Forse perché è in un’altra città? Però avrebbe potuto propormi un percorso online
Allora, vengo a chiarire la questione. Questo professionista opera presso un centro medico in cui ci sono svariate figure, tra cui neurologi. Lui è specializzato in un disturbo specifico (di cui io sono affetta) e che normalmente si risolve in poche sedute (massimo 10). Noi siamo andati ben oltre il termine previsto e, non avendo ottenuto benefici, mi ha proposto di continuare con un collega (o una collega) del centro stesso, visto che lui presso questo centro si occupa solo di uno specifico disturbo.
Si, è giovane, ma facendo qualche ricerca in rete ho scoperto che riceve anche presso il suo studio privato che però è ubicato in un’altra città.
Credo che sia un collaboratore (dipendente?) di questo centro ma al contempo esercita la libera professione nel suo studio.
Non discuto l’interruzione della terapia, semplicemente mi chiedo perché non voglia proseguire con me nel suo studio privato. Forse perché è in un’altra città? Però avrebbe potuto propormi un percorso online
Gentile utente,
ora mi sembra di capire meglio quello che le ha detto il curante.
La terapia posta in essere, come lei stessa ha scritto, pur essendosi protratta molto più a lungo dei termini usuali non ha prodotto alcun effetto.
Il curante ha quindi valutato la sua situazione come più problematica del previsto, tale che solo una terapia "ad ampio spettro" può affrontarla.
Coerentemente con l'esito negativo della terapia e con la valutazione professionale della situazione, il curante ha applicato l'invio ad altri colleghi, come prescritto dal nostro codice deontologico che all'art. 37 recita: "Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze. Qualora l’interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l’invio ad altro collega o ad altro professionista".
Il collega quindi ha proceduto secondo deontologia a tutela dell'interesse della paziente, ossia lei che ci scrive.
Ci faccia capire per quale ragione lei stessa, pur avendo verificato il fallimento della terapia ed essendo informata che questo psicologo si occupa di un disturbo ben preciso, vorrebbe proseguire con lui su ambiti evidentemente non di sua competenza.
Restiamo in attesa.
ora mi sembra di capire meglio quello che le ha detto il curante.
La terapia posta in essere, come lei stessa ha scritto, pur essendosi protratta molto più a lungo dei termini usuali non ha prodotto alcun effetto.
Il curante ha quindi valutato la sua situazione come più problematica del previsto, tale che solo una terapia "ad ampio spettro" può affrontarla.
Coerentemente con l'esito negativo della terapia e con la valutazione professionale della situazione, il curante ha applicato l'invio ad altri colleghi, come prescritto dal nostro codice deontologico che all'art. 37 recita: "Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze. Qualora l’interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l’invio ad altro collega o ad altro professionista".
Il collega quindi ha proceduto secondo deontologia a tutela dell'interesse della paziente, ossia lei che ci scrive.
Ci faccia capire per quale ragione lei stessa, pur avendo verificato il fallimento della terapia ed essendo informata che questo psicologo si occupa di un disturbo ben preciso, vorrebbe proseguire con lui su ambiti evidentemente non di sua competenza.
Restiamo in attesa.
Prof.ssa Anna Potenza
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Utente
Si certo, la sua spiegazione non fa una piega, peccato che il professionista in questione, sul web, si pubblicizzi come esperto in vari disturbi, tra cui ansia, depressione ecc.. vale a dire proprio le problematiche (in primis ansia) di cui io soffro
Gentile utente,
se rilegge l'articolo 37 del codice deontologico, che ho trascritto, vedrà che in caso di insuccesso della terapia l'invio ad altro specialista non è un optional, ma una prescrizione che non può essere disattesa.
L'interesse del paziente citato nell'articolo è quello di migliorare la propria condizione. Se ciò non avviene, o peggio avviene il contrario, il terapeuta è tenuto ad inviarlo a colleghi che possano risultare più idonei.
Vorrei ricordarle i numerosi segni di sofferenza da lei espressi su questa pagina a proposito della terapia che si è infine conclusa: lei ha parlato perfino di "situazione insostenibile". Perché mai vorrebbe ora continuare un rapporto professionale che può solo essere doloroso per lei e frustrante per il collega?
Credo che una nuova relazione terapeutica che affronti più ampiamente i suoi problemi possa solo giovarle.
Talvolta un sintomo secondario di disagio, quale il disturbo che l'ha portata in terapia, si rivela la punta dell'iceberg, ma proprio la sua esistenza permette di scoprire e di curare quello che c'è sotto.
Rifletta su questo indubbio beneficio che le deriva dalla terapia appena conclusa: inefficace sul sintomo, le ha permesso di diagnosticare, e curare se lo vorrà, l'intera malattia.
Molti auguri.
se rilegge l'articolo 37 del codice deontologico, che ho trascritto, vedrà che in caso di insuccesso della terapia l'invio ad altro specialista non è un optional, ma una prescrizione che non può essere disattesa.
L'interesse del paziente citato nell'articolo è quello di migliorare la propria condizione. Se ciò non avviene, o peggio avviene il contrario, il terapeuta è tenuto ad inviarlo a colleghi che possano risultare più idonei.
Vorrei ricordarle i numerosi segni di sofferenza da lei espressi su questa pagina a proposito della terapia che si è infine conclusa: lei ha parlato perfino di "situazione insostenibile". Perché mai vorrebbe ora continuare un rapporto professionale che può solo essere doloroso per lei e frustrante per il collega?
Credo che una nuova relazione terapeutica che affronti più ampiamente i suoi problemi possa solo giovarle.
Talvolta un sintomo secondario di disagio, quale il disturbo che l'ha portata in terapia, si rivela la punta dell'iceberg, ma proprio la sua esistenza permette di scoprire e di curare quello che c'è sotto.
Rifletta su questo indubbio beneficio che le deriva dalla terapia appena conclusa: inefficace sul sintomo, le ha permesso di diagnosticare, e curare se lo vorrà, l'intera malattia.
Molti auguri.
Prof.ssa Anna Potenza
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Utente
Ora come ora non so neppure se me la sento di affrontare un percorso del genere.
Il terapeuta con cui ho concluso il percorso mi ha detto che posso rivolgermi ad altri professionisti del centro. Nel corso dell’ultima seduta ero davvero affranta, tanto che lui mi ha chiesto più volte come stessi.. alla fine ho vuotato il sacco e gli ho detto che mi sentivo abbandonata risposta: uhm.. capisco, va bene . Nient’altro. Per tutta la seduta ho avuto un groppo in gola (e lui sicuramente lo ha notato) ma non ha fatto/detto nulla quantomeno per cercare di consolarmi . Alla fine della seduta, una stretta di mano e il classico se hai bisogno, scrivimi pure!
Gli ho anche detto che non mi fido degli psicoterapeuti perché molti fingono sua risposta: beh, può essere con tanto di sorrisetto che mi ha fatto capire (ma questa è una mia interpretazione) che in realtà la sua è stata una recita e che non nutrisse molta simpatia nei miei riguardi.
Il giorno dopo mi ha scritto una mail in cui mi ha chiesto di compilare una sorta di questionario magari sono stata poco educata, ma non me la sono sentita neppure di rispondergli
Il terapeuta con cui ho concluso il percorso mi ha detto che posso rivolgermi ad altri professionisti del centro. Nel corso dell’ultima seduta ero davvero affranta, tanto che lui mi ha chiesto più volte come stessi.. alla fine ho vuotato il sacco e gli ho detto che mi sentivo abbandonata risposta: uhm.. capisco, va bene . Nient’altro. Per tutta la seduta ho avuto un groppo in gola (e lui sicuramente lo ha notato) ma non ha fatto/detto nulla quantomeno per cercare di consolarmi . Alla fine della seduta, una stretta di mano e il classico se hai bisogno, scrivimi pure!
Gli ho anche detto che non mi fido degli psicoterapeuti perché molti fingono sua risposta: beh, può essere con tanto di sorrisetto che mi ha fatto capire (ma questa è una mia interpretazione) che in realtà la sua è stata una recita e che non nutrisse molta simpatia nei miei riguardi.
Il giorno dopo mi ha scritto una mail in cui mi ha chiesto di compilare una sorta di questionario magari sono stata poco educata, ma non me la sono sentita neppure di rispondergli
Gentile utente,
è evidente il suo risentimento verso l'ex curante, così forte che scrive di getto delle frasi difficili da capire: "Gli ho anche detto che non mi fido degli psicoterapeuti perché molti fingono sua risposta: beh, può essere con tanto di sorrisetto che mi ha fatto capire (ma questa è una mia interpretazione) che in realtà la sua è stata una recita e che non nutrisse molta simpatia nei miei riguardi".
Al di là della prima frase oscura, lei parla come se si aspettasse una simpatia personale dal curante, il quale non coltiva sentimenti di questo tipo verso i pazienti (per loro fortuna) e conduce il proprio compito professionale con empatia generalizzata sulla base di nozioni specialistiche destinate a favorire un cambiamento migliorativo, a prescindere da ogni simpatia o antipatia personale come da ogni affinità o distanza dai valori e dalla personalità del paziente.
A quale scopo dunque un terapeuta potrebbe aver fatto una "recita"? Non è un aspirante fidanzato, un seduttore, un venditore di tappeti!
Perché lei comprenda che le parole del suo psicologo non sono ispirate ad un atteggiamento negativo verso di lei e possa quindi rasserenarsi la invito a considerare quanto segue.
Nella prima email lei scrive di aver ricevuto: "una terapia strategica breve con pochi se non nulli miglioramenti" e spiega il mancato successo così: "Probabilmente non mi sono impegnata abbastanza in questo percorso (durato all’incirca 4 mesi)".
Il suo curante le ha fornito invece una causa diversa: "il terapeuta mi ha detto che ciò è dovuto al fatto che io ho dei problemi più ampi che necessiterebbero di un percorso di psicoterapia ad ampio spettro".
Ora, se lei si fida della competenza di questo professionista deve credergli e accettare anche la successiva conclusione: non è lui che può continuare nella nuova direzione, ma un altro specialista.
Se invece non si fida, perché vorrebbe mantenere con lui il contatto terapeutico, soprattutto considerando che lei non desidera intraprendere un percorso che porti alla luce le cause profonde del suo disagio, infatti scrive: "Ora come ora non so neppure se me la sento di affrontare un percorso del genere".
Se è così, per quale ragione vorrebbe impegnare ancora il tempo e la competenza di questo curante?
Particolarmente significativo è il fatto che non ha nemmeno compilato il questionario che i professionisti scrupolosi forniscono ai pazienti ad interesse di questi ultimi, per una consapevolezza del percorso fatto.
A questo punto due domande fondamentali può rivolgere a sé stessa:
- cosa si aspetta da un professionista della psiche?
- vuole davvero migliorare la sua vita, anche affrontando dolorosamente qualche verità scomoda?
Buone cose.
è evidente il suo risentimento verso l'ex curante, così forte che scrive di getto delle frasi difficili da capire: "Gli ho anche detto che non mi fido degli psicoterapeuti perché molti fingono sua risposta: beh, può essere con tanto di sorrisetto che mi ha fatto capire (ma questa è una mia interpretazione) che in realtà la sua è stata una recita e che non nutrisse molta simpatia nei miei riguardi".
Al di là della prima frase oscura, lei parla come se si aspettasse una simpatia personale dal curante, il quale non coltiva sentimenti di questo tipo verso i pazienti (per loro fortuna) e conduce il proprio compito professionale con empatia generalizzata sulla base di nozioni specialistiche destinate a favorire un cambiamento migliorativo, a prescindere da ogni simpatia o antipatia personale come da ogni affinità o distanza dai valori e dalla personalità del paziente.
A quale scopo dunque un terapeuta potrebbe aver fatto una "recita"? Non è un aspirante fidanzato, un seduttore, un venditore di tappeti!
Perché lei comprenda che le parole del suo psicologo non sono ispirate ad un atteggiamento negativo verso di lei e possa quindi rasserenarsi la invito a considerare quanto segue.
Nella prima email lei scrive di aver ricevuto: "una terapia strategica breve con pochi se non nulli miglioramenti" e spiega il mancato successo così: "Probabilmente non mi sono impegnata abbastanza in questo percorso (durato all’incirca 4 mesi)".
Il suo curante le ha fornito invece una causa diversa: "il terapeuta mi ha detto che ciò è dovuto al fatto che io ho dei problemi più ampi che necessiterebbero di un percorso di psicoterapia ad ampio spettro".
Ora, se lei si fida della competenza di questo professionista deve credergli e accettare anche la successiva conclusione: non è lui che può continuare nella nuova direzione, ma un altro specialista.
Se invece non si fida, perché vorrebbe mantenere con lui il contatto terapeutico, soprattutto considerando che lei non desidera intraprendere un percorso che porti alla luce le cause profonde del suo disagio, infatti scrive: "Ora come ora non so neppure se me la sento di affrontare un percorso del genere".
Se è così, per quale ragione vorrebbe impegnare ancora il tempo e la competenza di questo curante?
Particolarmente significativo è il fatto che non ha nemmeno compilato il questionario che i professionisti scrupolosi forniscono ai pazienti ad interesse di questi ultimi, per una consapevolezza del percorso fatto.
A questo punto due domande fondamentali può rivolgere a sé stessa:
- cosa si aspetta da un professionista della psiche?
- vuole davvero migliorare la sua vita, anche affrontando dolorosamente qualche verità scomoda?
Buone cose.
Prof.ssa Anna Potenza
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Utente
Salve Dottoressa,
Ha ragione, ma anche voi professionisti avete delle preferenze sui pazienti. Con alcuni magari c’è più affinità (se non vogliamo parlare di simpatia), con altri meno. E magari il lavoro è più stimolante con alcuni pazienti.
Io avrei voluto continuare il percorso con lui per il semplice motivo che avevo imparato a. Fidarmi di lui e quelle reticenze dell’inizio percorso erano venute meno. Adesso dovrò cominciare daccapo con una nuova persona (qualora decidessi di farlo) e non è detto che mi ispiri la stessa fiducia.
Si, nutro risentimento nei suoi confronti perché l’interruzione della terapia non è stata gestita bene, non so come si svolgano le sedute conclusive, ma credo che se un paziente manifesta tristezza, rabbia ecc il terapeuta debba indagare e, in qualche modo, aiutarlo. Nel mio caso nulla di tutto ciò è avvenuto malgrado lui sapesse che qualche anno fa ho subìto una perdita importante e, in qualche modo, l’ultima seduta mi ha rievocato un po’ questa perdita.
In ogni caso dopo qualche giorno, ho provato ad a aggiungerlo sui social, ma non ha accettato, il che vuol dire che non gli importa di restare in contatto con me. Non so se sia stata una mossa azzardata, ma ho atteso la fine della terapia proprio perché al termine del percorso non c’è più alcun vincolo
Ha ragione, ma anche voi professionisti avete delle preferenze sui pazienti. Con alcuni magari c’è più affinità (se non vogliamo parlare di simpatia), con altri meno. E magari il lavoro è più stimolante con alcuni pazienti.
Io avrei voluto continuare il percorso con lui per il semplice motivo che avevo imparato a. Fidarmi di lui e quelle reticenze dell’inizio percorso erano venute meno. Adesso dovrò cominciare daccapo con una nuova persona (qualora decidessi di farlo) e non è detto che mi ispiri la stessa fiducia.
Si, nutro risentimento nei suoi confronti perché l’interruzione della terapia non è stata gestita bene, non so come si svolgano le sedute conclusive, ma credo che se un paziente manifesta tristezza, rabbia ecc il terapeuta debba indagare e, in qualche modo, aiutarlo. Nel mio caso nulla di tutto ciò è avvenuto malgrado lui sapesse che qualche anno fa ho subìto una perdita importante e, in qualche modo, l’ultima seduta mi ha rievocato un po’ questa perdita.
In ogni caso dopo qualche giorno, ho provato ad a aggiungerlo sui social, ma non ha accettato, il che vuol dire che non gli importa di restare in contatto con me. Non so se sia stata una mossa azzardata, ma ho atteso la fine della terapia proprio perché al termine del percorso non c’è più alcun vincolo
Gentile utente,
alcune cose da lei notate sono vere: "anche voi professionisti avete delle preferenze sui pazienti. Con alcuni magari c’è più affinità".
Tuttavia questo tratto umano viene neutralizzato nella pratica clinica, altrimenti anziché una professione d'aiuto tale pratica diventerebbe una serie di appuntamenti sentimentali, con quali effetti sul paziente e anche sul terapeuta può ben immaginare.
Scrive inoltre: "nutro risentimento nei suoi confronti perché l’interruzione della terapia non è stata gestita bene, non so come si svolgano le sedute conclusive, ma credo che se un paziente manifesta tristezza, rabbia ecc il terapeuta debba indagare e, in qualche modo, aiutarlo".
Ma l'aiuto che lei si aspetta è arrivato in tutti i modi: con la richiesta continua di come si sentisse, con l'invio del questionario conclusivo e soprattutto con la valutazione del suo disturbo e il rimandarla ad altro professionista, elementi della nostra migliore prassi professionale.
Lei continua a non voler vedere tutto questo perché continua a non separare l'impegno professionale del curante dal rapporto personale che lei pretendeva di istaurare con lui, per esempio chiedendogli l'amicizia su Facebook.
Questo rapporto diverso, a terapia interrotta o conclusa, sarebbe non rispettoso delle confidenze dal paziente fatte in sede di colloquio clinico, e oltretutto precluderebbe la possibilità, sempre aperta ai nostri ex pazienti, di chiedere anche in futuro una consulenza.
Non è assolutamente vero, infatti, ciò che lei scrive: "al termine del percorso non c’è più alcun vincolo". Se così fosse, il paziente non sarebbe tutelato dal segreto professionale e dal rispetto del suo benessere mentale, pratiche professionali che non hanno scadenza.
La invito ancora una volta a rispondere alle due domande conclusive del mio precedente consulto, che riformulo ampliate:
- cosa si aspettava da un professionista della psiche e come ha cambiato la sua richiesta dopo i colloqui clinici col suo terapeuta?
- voleva e vuole davvero migliorare la sua vita, affrontando dolorosamente qualche verità scomoda e accettando la diagnosi del suo disturbo?
Aggiungo:
- crede che un terapeuta che venisse incontro alle sue richieste di contatto personale la potrebbe guarire, mescolando indebitamente vari piani di realtà?
Non risponda a me, ma a sé stessa.
Concludo il nostro scambio e le auguro un'ampia conquista del benessere.
alcune cose da lei notate sono vere: "anche voi professionisti avete delle preferenze sui pazienti. Con alcuni magari c’è più affinità".
Tuttavia questo tratto umano viene neutralizzato nella pratica clinica, altrimenti anziché una professione d'aiuto tale pratica diventerebbe una serie di appuntamenti sentimentali, con quali effetti sul paziente e anche sul terapeuta può ben immaginare.
Scrive inoltre: "nutro risentimento nei suoi confronti perché l’interruzione della terapia non è stata gestita bene, non so come si svolgano le sedute conclusive, ma credo che se un paziente manifesta tristezza, rabbia ecc il terapeuta debba indagare e, in qualche modo, aiutarlo".
Ma l'aiuto che lei si aspetta è arrivato in tutti i modi: con la richiesta continua di come si sentisse, con l'invio del questionario conclusivo e soprattutto con la valutazione del suo disturbo e il rimandarla ad altro professionista, elementi della nostra migliore prassi professionale.
Lei continua a non voler vedere tutto questo perché continua a non separare l'impegno professionale del curante dal rapporto personale che lei pretendeva di istaurare con lui, per esempio chiedendogli l'amicizia su Facebook.
Questo rapporto diverso, a terapia interrotta o conclusa, sarebbe non rispettoso delle confidenze dal paziente fatte in sede di colloquio clinico, e oltretutto precluderebbe la possibilità, sempre aperta ai nostri ex pazienti, di chiedere anche in futuro una consulenza.
Non è assolutamente vero, infatti, ciò che lei scrive: "al termine del percorso non c’è più alcun vincolo". Se così fosse, il paziente non sarebbe tutelato dal segreto professionale e dal rispetto del suo benessere mentale, pratiche professionali che non hanno scadenza.
La invito ancora una volta a rispondere alle due domande conclusive del mio precedente consulto, che riformulo ampliate:
- cosa si aspettava da un professionista della psiche e come ha cambiato la sua richiesta dopo i colloqui clinici col suo terapeuta?
- voleva e vuole davvero migliorare la sua vita, affrontando dolorosamente qualche verità scomoda e accettando la diagnosi del suo disturbo?
Aggiungo:
- crede che un terapeuta che venisse incontro alle sue richieste di contatto personale la potrebbe guarire, mescolando indebitamente vari piani di realtà?
Non risponda a me, ma a sé stessa.
Concludo il nostro scambio e le auguro un'ampia conquista del benessere.
Prof.ssa Anna Potenza
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Questo consulto ha ricevuto 9 risposte e 470 visite dal 22/07/2025.
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