Psicoterapia adatta?

Gentili dottori,
vi scrivo perché sono un po' sul disperato andante.

Sono a ridosso dei 40 anni e son sempre stata, fin da teenager, seguita da psicologi.

Il primo dottore mi seguì dai 17 ai 27 anni (mi trovai molto bene), poi dai 31 ai 33 ebbi uno psicologo davvero scarso, che si sentiva più un coach ed, infine, dopo una pausa di tre quattro anni, sono da un anno in psicoterapia con una psicologa molto brava.

Non ho mai chiesto una diagnosi vera e propria, sono troppo vigliacca per fare la domanda diretta.
Ho dedotto io di essere borderline.
Poi mi hanno parlato anche di disturbi ossessivi, ovviamente, e così via.

Non assumo farmaci tranne Xanax al bisogno e, anni fa, Entact (per due o tre anni).
La mia vita è davvero "scarsa", ho un lavoro part time che non mi piace (faccio la cassiera) da otto anni e vivo ancora in famiglia.

Ho molti amici, e questo è buono; ma ho il terrore del cambiamento lavorativo.

Questo problema ce l'ho ormai da una vita e pensavo che la mia psicoterapeuta, che frequento da un anno BEN due volte a settimana, mi aiutasse ad uscire di casa all'alba dei quarant'anni.

Invece no, il tempo passa ed io non ho né il coraggio né gli strumenti per inventarmi un'uscita dal nido.

La psicologa pare indurmi alla rassegnazione, dicendo che emotivamente "sono immatura" e che questo il motivo, unito ad un attaccamento forte a mia madre, m'impedisce di cambiare e mettermi in gioco.

Ok, e ora che lo so?

Non è che ho meno paura... Al solo pensiero di mandare un curriculum mi sento inadeguata e tremante e preferisco stare ancora come un'adolescente nella mia camera.

Ogni volta che ho provato a cambiare sono stata malissimo, ho pensato perfino al suicidio per l'ansia dei primi giorni di lavoro.

Il lavoro che ho da otto anni è routinario e noioso, non mi fa sentire realizzata e mi mortifica, tuttavia, dopo aver sviscerato con me stessa se c'è qualcosa che mi piace, ed essermi interrogata fino alla nausea, non ho trovato neanche un desiderio o un'alternativa in cui credere.

Magari un accenno di desiderio, ma è una fiammella flebile per la quale, nel pratico, non muoverei neanche un dito.
Ho vagliato le cose che mi piacciono, ma questo piacere è flebile e non tale da crederci davvero.
A meno che, come il secondo psicologo,  io non usi la finta del "fake it 'till you make it".
Inganno che durerebbe due minuti.

A Settembre la mia psicologa ritornerà dalle ferie.
Io vorrei dirle che forse non ha capito come mi fa star male stare in questa stanza di casa mia mentre, i miei amici, ovunque mi giri, cambiano case e lavori buttandosi nella vita con un paura moderata, non paralizzante.

Se rimango in questa stanza ancora un po', esco di testa del tutto.
Eppure lei sembra voler farmi pazientare.
Io penso anche, come il lupo della Steppa, ad una data per farmi fuori se questo ristagno continua.
Se non ho un cambiamento nella mia vita.
Ma non so come farle capire la gravità.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 183
Gentile utente,
far capire alla psicologa quello che desidera e quello che le fa paura non solo non è impossibile, ma è il clou del lavoro che state conducendo, a meno che lei non voglia sabotarlo.
Scrive: "Io vorrei dirle che forse non ha capito come mi fa star male stare in questa stanza di casa mia mentre, i miei amici, ovunque mi giri, cambiano case e lavori buttandosi nella vita con un paura moderata, non paralizzante".
Abolisca i condizionali e gli avverbi di dubbio e punti al succo: "Mi fa star male stare in questa stanza di casa mia mentre i miei amici, ovunque mi giri, cambiano case e lavori buttandosi nella vita con una paura moderata, non paralizzante".
Aggiunga: "Voglio fare come loro. Dottoressa, mi aiuti ad affrontare l'ignoto. Tanto, peggio di così non potrò stare: mi sono già data un termine per il suicidio".
Ma lei interpreta tortuosamente la psicologa, anziché parlarle con schiettezza: "Eppure lei sembra voler farmi pazientare".
Un'idea tutta sua, come esprime anche nelle frasi: "La psicologa pare indurmi alla rassegnazione, dicendo che emotivamente "sono immatura" e che questo il motivo, unito ad un attaccamento forte a mia madre, m'impedisce di cambiare e mettermi in gioco".
Perché mai la psicologa dovrebbe farla pazientare, all'età che ha raggiunto?
E per quale ragione il segnalare le sue reali tendenze dovrebbe coincidere con l'indurla alla rassegnazione?
Crede che il coraggio del cambiamento si instilli nel paziente tramite la falsificazione della realtà, dicendo per esempio: "Lei è un leone, e le basterà un ruggito per ottenere di tutto e di più"?
Lei scrive: "Al solo pensiero di mandare un curriculum mi sento inadeguata e tremante".
Ma si è almeno sforzata di scriverlo, questo curriculum?
Immagino che se la psicologa la invitasse a compilarlo direttamente in seduta, lei opporrebbe che le fa perdere tempo, o peggio, come ha detto del precedente psicologo, che si comporta da coach.
Vede, esiste un tipo di paziente, spesso quello che ha vissuto da bambino il cosiddetto "attaccamento disorganizzato", che cerca con ansia chi possa aiutarlo e con altrettanto vigore allontana chi gli porge aiuto, in un'altalena che esaurisce tutte le sue risorse.
Tra l'altro un'autodiagnosi di borderline mi sembra un bel metodo per ignorare la diagnosi reale: "mi hanno parlato anche di disturbi ossessivi, ovviamente, e così via".
Ma via dove? L'eventuale disturbo ossessivo non le basta?
Provi a riflettere su questo e ad accettare l'aiuto diretto della sua curante.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

[#2]
dopo
Utente
Utente
Grazie per la risposta, dottoressa.
Proverò ad essere più chiara, anche se non è molto nella mia indole: appena penso di poter "graffiare" o "compromettere" l'ideale che qualcuno si è fatto di me, mi blocco e mi viene quasi da belare. Mi sembra a volte di stridere come lavagna sul gesso se dico la verità. Cioè, forse mi capita con questa psicologa perché ho stima e vorrei compiacerla, come facevo con i miei professori preferiti a scuola. Inoltre, spesso la verità non è morbida ma puntigliosa, ed essere esigente e precisa nelle indicazioni per lavorare insieme mi costa davvero tanto. Non so, forse mi viene da essere arrendevole in seduta, mi piace sentirmi "accolta" e basta; senza correggere il tiro. Mi sdraio sul lettino e sento che magicamente tutto il dolore e la pesantezza della settimana scendono in cascata come liberate dalle parole accurate e scelte della dottoressa. Poi passano due giorni e sto male, ed ecco allora che mi rammarico di non averle chiesto un indirizzo preciso per affrontare il quotidiano che mi sovrasta come uno tsunami.

"E per quale ragione il segnalare le sue reali tendenze dovrebbe coincidere con l'indurla alla rassegnazione?" M'induce alla rassegnazione perché se descrive una tendenza, ma non mi fornisce dei possibili strumenti per dare un colpo di reni (che non significa travestirsi da leone), o acquisire dei comportamenti che mi aiutino nel quotidiano, va da sé che io mi debba accontentare di sopravvivere così. Mi spiega perché sono in stallo, ma non mi fornisce spunti per uscirne. Io avrei bisogno di quello: squarci di speranza. Morsi di futuro possibile. Non avvitamenti sul perché sto così o colà.

I disturbi ossessivi - certo - mi paiono già un bagaglio consistente. Dico borderline perché il primo psicologo che mi ebbe in cura dai 17 anni ai 27 concluse il percorso dicendomi una frase più o meno così: "Tu hai capito di avere un disturbo di personalità, e che ci dovrai un po' convivere". Io allora avevo 27 anni, e non chiesi nulla, per paura. Non volli approfondire. Poi, col tempo, pensai di rientrare nelle caratteristiche del borderline ritrovandomi nelle descrizioni che si danno di tale disturbo, tutto qui.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 183
Gentile utente,
da questa risposta lei appare davvero molto remissiva. Direi troppo.
Il suo primo psicologo le parla di "disturbo di personalità" e lei si va a scegliere quello borderline. Ha idea di quanti siano i disturbi di personalità? Le varie edizioni del Manuale Statistico Diagnostico, per non parlare dell'International Classification of Desease, ne elencano parecchi.
Peggio ancora, "asseconda" la sua psicologa -o crede di farlo, non rivolgendo richieste- perché "mi piace sentirmi "accolta" e basta; senza correggere il tiro".
Ecco tutta lei in due frasi. "Essere accolta", ok, questo è il compito del terapeuta, anche se lei fosse Belzebù. "Senza correggere il tiro" invece non è svolgere il compito per cui il paziente è venuto da noi. Il paziente vuole stare meglio, e non continuare a scoprire, per esempio, dopo vent'anni di terapia, che fin da bambino è affondato nelle piume paurose di una mamma ansiosa che gli ha rammollito la spina dorsale comunicandogli il terrore di affrontare la vita.
Ma lei guarda caso sceglie una psicologa che la fa sdraiare sul lettino, ossia una psicoanalista, quando invece le sue richieste accorate, nel secondo paragrafo della sua email, invocano un cognitivo-comportamentale o uno strategico.
Il problema è che questi altri psicologi non le darebbero solo "squarci di speranza" e "morsi di futuro possibile", ma esercizi pratici, confutazioni delle sue idee irrazionali, strumenti di cambiamento. E questo fa male, perché più di quanto facciano anni e anni stesi su un lettino, spalancano la conoscenza dei blocchi reali che ci portiamo dentro.
Suona quasi ironica la sua frase: "mi rammarico di non averle chiesto un indirizzo preciso per affrontare il quotidiano che mi sovrasta come uno tsunami", per due ragioni:
1) la richiesta del paziente, anche quella implicita, viene sempre analizzata e compresa dal terapeuta;
2) l'indirizzo che lei può chiedere, dopo tanti anni di terapia improduttiva, sembra quello di un altro psicologo, di orientamento cognitivo-comportamentale; tutto qui.
Affronti queste sue attuali consapevolezze per accettare che la vita non è immobile, ed è meglio afferrarla e condurla per quanto è possibile nella direzione che si desidera, prima che sia lei a trascinarci con sé.
Buone cose. Ci faccia sapere che cosa ha deciso.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

[#4]
dopo
Utente
Utente
Ok, dottoressa, cercherò qualche specialista in terapia strategica nelle mie zone.
Non me ne intendo tanto delle differenti specializzazioni ed indirizzi, diciamo che questa psicologa mi era stata consigliata da uno psichiatra di cui mi fido e che, in passato, mi aveva curato per due anni con dei farmaci.
In più, trovando un certo feeling, mi dispiacerebbe un po' ricominciare tutto da capo e raccontarmi nuovamente ad un'altra persona.
In ogni caso, se non sento l'efficacia della terapia, se non scorgo un'utilità nel quotidiano a prescindere dall'atto di "svuotamento" e dallo star bene le 24 ore successive, non posso restarci solo perché mi sono affezionata alla dottoressa.
Che casino.
Grazie mille, comunque.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 183
Cara utente,
la prima indicazione è sempre quella di parlare col proprio curante, il quale potrebbe anche, come usano in America, praticare secondo la tecnica di diverse specializzazioni.
Questo sarà per lei un ottimo esercizio.
Altrimenti, tra l'altro, si prende il vizio di saltare come uno stambecco dall'uno all'altro terapeuta per non concludere mai, tipico di chi ha alle spalle un "attaccamento disorganizzato".
Del resto lei ha già provato quello che le sembrava un coach, e non le è piaciuto.
Sia assennata e pensi al suo bene.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

[#6]
dopo
Utente
Utente
Salve dottoressa,
volevo aggiornarla su una cosa e chiederle l'ultimo consiglio (poi prometto di staccare il pc per un po' su questo sito che, per noi ipocondriaci ed ossessivi, è tipo Gardaland).
Oggi pomeriggio ho provato ad andare dalla mia psicologa, ma non ho avuto il coraggio di parlarle delle mie perplessità, zero. Mi sono sdraiata sul lettino ed ho iniziato col dire che vorrei vederla una volta a settimana invece che due, ma non ho esplicitato i miei "dubbi sulla terapia". Eppure, sono mesi che ci penso, ma niente, non riesco a parlargliene. Abbiamo deciso insieme che, dal mese prossimo, andrò dunque "solo" una volta a settimana perché un impegno così serrato mi fa sentire soffocata. La dottoressa ci è rimasta un po', ma ha accettato la mia scelta, anche perché non mi son nascosta dietro la scusa dei soldi, ho proprio parlato di "pesantezza di un impegno così incalzante" (è un anno esatto che vado due volte a settimana).
Tuttavia, non ho detto nulla delle mie perplessità più ad ampio raggio sulla terapia.
Niente sulla mia tristezza per la non efficacia al di fuori delle 24 ore di sfogo.
Guardavo il soffitto, ma le parole non mi uscivano. Avevo un blocco, non so se era paura di ferirla, di deluderla, boh, non so. Mi sentivo "mollissima".
Sono uscita sentendomi ancora più m****di quando sono entrata, pensando che forse la diminuzione del ritmo serrato delle sedute sia il mio piano subdolo per poi, tra qualche mese (tipo cinque o sei), lasciare del tutto.
Che senso ha andare in terapia se parlo di tanto, quasi di tutto, ma non ho il coraggio di parlare di quello che riguarda noi (me e la psycho)?
Conti che mi sento anche in uno stato di forte di depressione e, forse, questa sensazione di "bambagia nella testa" e "mollezza", di poca efficacia, magari sarebbe meno pesante se assumessi dei farmaci (Cymbalta mi aveva prescritto lo psichiatra ormai quasi due anni fa, ma non ho mai cominciato a prenderlo, perché questa volta volevo provare a farcela con le mie forze).
Ad ogni modo, non mi esce una parola precisa con la mia psicologa. Tante vaghe, ma nessuna specifica.
Come fa la dottoressa a leggermi questa testa fradicia se ho esordito dicendo "non vedevo l'ora di venire qui per svuotarmi?" (cosa vera, tra l'altro), quando, abbinata a questa verità, ce n'è anche un'altra, del tipo: "non so se voglio più venire qui a perdere tempo perché questa terapia mi pare inefficace"?
Alla fine, sa cosa penso? Che io mi voglia far vedere più delicata di quel che sono da questa dottoressa, perché la stimo e mi piace e, dunque, le ho sempre nascosto, in un anno, la mia parte più vera, quella meno compiacente. Perché quando voglio essere chirurgica con le parole so esserlo, vedi con la mia famiglia, con la quale levo la maschera e divento anche antipatica e rude, mentre con lei mi trasformo nell'allieva modello, "finto armoniosa".
Non so, sono confusa, dottoressa. Vado là e divento super passiva e belante, esco e sono quasi aggressiva da mettere i puntini sulle "i" con tutti.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 183
Cara utente,
ci scriva quanto vuole, e la smetta di preoccuparsi di quello che possono pensare di lei, o di quello che possono addirittura "soffrire" a causa sua, gli psicologi, i quali fanno lunghi training e continue supervisioni per poter reggere benissimo frasi e comportamenti ben più pesanti della sua riflessione: "Che senso ha andare in terapia se parlo di tanto, quasi di tutto, ma non ho il coraggio di parlare di quello che riguarda noi (me e la psycho)?"
Questa frase dovrebbe ispirare le sue azioni conseguenti, a partire dal dialogo con la sua psicologa fin dalla prossima seduta: la impari a memoria e gliela dica subito, rifiutando di stendersi ancora una volta su un lettino che forse per lei è solo strumento di regressione.
Questo sarebbe l'ideale, ma se non ce la fa, è il momento di consultare di persona qualcun altro. Non sono i farmaci che le daranno la carica per affrontare la vita in maniera vincente, cara signora, ma la volontà di guarire.
Su Medicitalia ci sono molti psicologi di orientamento strategico, alcuni della sua regione.
Uno di Napoli, il dottor Paolo Mancino, forse lavora anche online. Lo cito perché ha scritto un libro che potrebbe esserle utile : "Caso o destino".
La Compassion focused Therapy (guardi online il sito Compassionate Mind Italia) fa ogni anno dei corsi residenziali di pochi giorni, per specialisti e utenti non psicologi, che potrebbero esserle molto utili.
Non elenco le altre infinite occasioni di guarigione che potrebbe incontrare sul suo cammino se la smettesse di considerare sé stessa un mostro, e gli altri dei fragili oggettini di vetro.
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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