Il cibo come conforto, identità e linguaggio del disagio: una visione storico-culturale e clinica

Il cibo è comunemente rappresentato, nell’immaginario contemporaneo, come uno strumento di consolazione individuale e di regolazione emotiva, spesso ridotto a una funzione ansiolitica o antidepressiva. Tale visione medicalizzata e individualista rischia tuttavia di semplificare eccessivamente il valore simbolico, relazionale e identitario dell’alimentazione. E’ possibile tuttavia una lettura integrata del cibo come fenomeno storico-culturale, autobiografico e clinico, analizzandone il ruolo nei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione (DAN) con un approfondimento specifico sull’approccio della Mindful Eating come modello di intervento innovativo e validato, capace di favorire consapevolezza, regolazione emotiva e una relazione più funzionale con il cibo.

 

Il mito del comfort food

Quando si parla di comfort food, l’immaginario collettivo richiama spesso scene di solitudine e consumo compulsivo, in cui il cibo diventa un rimedio immediato al dolore emotivo. Questa narrazione, rafforzata da riferimenti neurobiologici (serotonina, circuiti della ricompensa, attivazioni cerebrali), tende a descrivere il cibo come un semplice correttivo chimico del disagio.
Tale prospettiva, pur avendo una base scientifica, risulta parziale: essa trascura la dimensione simbolica, sociale e storica dell’alimentazione, riducendo un fenomeno complesso a una risposta individuale a un vuoto emotivo.

 

Il cibo nella storia: potere, simbolo e cultura

Nel corso della storia, il cibo ha rappresentato un potente strumento di distinzione sociale e politica. La cucina dell’Impero romano, ad esempio, seguiva un principio sintetico, in cui la mescolanza degli ingredienti non era casuale ma simbolica: l’abbondanza e la fusione di sapori rappresentavano l’estensione del potere imperiale sul mondo conosciuto.
Questo paradigma rimane dominante fino alla fine del XVIII secolo, quando, con il declino del monopolio britannico delle spezie e l’ascesa della cucina francese, si afferma un principio analitico. In questo nuovo modello, il valore non risiede più nella ricchezza della materia prima, ma nella tecnica e nella capacità dello chef di esaltare il singolo ingrediente. Da qui nasce la tradizione dei maîtres culinaires e dei saucier, che ancora oggi definisce l’alta cucina occidentale.
Anche la diffusione globale di marchi come McDonald’s o Coca-Cola testimonia come il cibo continui a essere un simbolo di potere culturale e di standardizzazione dei consumi.

 

Cibo e memoria: la funzione autobiografica dell’alimentazione

Oltre alla dimensione politica, il cibo svolge una funzione profondamente autobiografica. Numerosi contributi letterari hanno mostrato come il gusto sia un potente attivatore mnestico ed emotivo. Il cibo diventa così un archivio di esperienze relazionali: pasti condivisi, figure di accudimento, momenti di appartenenza.
Dal punto di vista clinico, il gusto appare come uno degli ultimi sensi a indebolirsi con l’età, mantenendo una funzione di continuità identitaria. Rinunciare a determinati sapori può essere vissuto, soprattutto nelle persone anziane o affette da patologie croniche, come una rinuncia alla propria storia personale.
In questa prospettiva, il cibo non è solo nutrimento, ma un organizzatore del Sé, capace di connettere emozioni, ricordi e identità.

 

Il cibo come linguaggio del disagio

I disturbi dell’alimentazione e della nutrizione rappresentano una grave difficoltà di adattamento alla vita e si collocano lungo un continuum che va dall’iperfagia incontrollata fino all’anoressia e alla bulimia. Tali disturbi non possono essere ridotti a una mera alterazione del comportamento alimentare, ma vanno compresi come meccanismi di difesa e modalità disfunzionali di regolazione emotiva.
Bassa autostima, senso di inadeguatezza e difficoltà a riconoscere i propri bisogni emergono come elementi ricorrenti. Il problema con il cibo diventa così un modo per “tirarsi indietro” dalla vita, fino al rischio di trasformarsi in spettatori passivi della propria esistenza.
In questa ottica, il sintomo alimentare è la punta di un iceberg: un linguaggio attraverso cui il disagio psicologico, relazionale e sociale trova espressione.

 

Approccio clinico e multidisciplinare ai DAN

La letteratura scientifica conferma l’efficacia della psicoterapia nel trattamento dei disturbi alimentari, soprattutto quando inserita in un approccio bio-psico-sociale e multidisciplinare. Fondamentali risultano la diagnosi precoce e la capacità del clinico di intercettare anche forme subcliniche di disagio, ugualmente fonte di sofferenza. L’intervento efficace richiede non solo competenze tecniche e formazione specifica, ma anche qualità umane come ascolto, empatia e vicinanza emotiva.

 

La Mindful Eating come modello di intervento

La Mindful Eating si configura come un approccio innovativo e validato, derivato dai principi della mindfulness definiti da Jon Kabat-Zinn come “la consapevolezza che emerge dal prestare attenzione, intenzionalmente e in modo non giudicante, al momento presente”.
Applicata all’alimentazione, la Mindful Eating insegna a mangiare con attenzione e intenzione, esplorando il cibo attraverso i cinque sensi e contrastando l’alimentazione automatica e meccanica. Questo aspetto risulta particolarmente rilevante nei disturbi da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder), caratterizzati da perdita di controllo, bassa consapevolezza corporea e difficoltà nella regolazione emotiva.
Recuperare la sensibilità al gusto, agli odori e alla consistenza del cibo permette di interrompere la spirale compulsiva e di costruire una relazione più sana con il nutrimento e con se stessi.

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Il cibo non può essere compreso esclusivamente come fonte di piacere o come nemico da controllare. Esso è un potente mediatore simbolico, relazionale e identitario, capace di raccontare la storia individuale e collettiva delle persone.
Nei disturbi dell’alimentazione, il cibo diventa linguaggio del disagio e tentativo disfunzionale di gestione delle emozioni. Interventi come la Mindful Eating offrono una prospettiva integrata che non mira solo alla riduzione del sintomo, ma alla promozione di una maggiore consapevolezza di sé e a un miglioramento globale della qualità della vita.
Restituire al cibo il suo valore umano e relazionale significa accompagnare la persona fuori dalla “sala d’attesa” del disagio e favorire un ritorno attivo alla propria esistenza.

 

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Data pubblicazione: 21 dicembre 2025

Autore

eleonorariva
Dr.ssa Eleonora Riva Psicologo

Laureata in Psicologia nel 2007 presso Università degli Studi di Padova.
Iscritta all'Ordine degli Psicologi della Regione Veneto tesserino n° 14798.

Esperta in benessere organizzativo e gestione dello stress, con formazione avanzata in psicologia, disturbi alimentari e mindfulness. Vanta oltre 15 anni di consulenza aziendale e supporto individuale per ansia, depressione e fasi di cambiamento. Giornalista scientifica con 25 anni di esperienza, unisce competenze comunicative e cliniche per promuovere salute mentale e qualità della vita.

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