Autosabotaggio da funzionamento borderline o reale volontà di chiudere la relazione?
Buonasera.
Chiedo un parere per una situazione che mi sta facendo soffrire e vivere meno serenamente la mia maternità.
Premetto che sono già seguita da un'equipe di psicologi e da uno psichiatra e ho recentemente reintrodotto la terapia con paroxetina per sintomi compatibili con baby blues.
Sono una ragazza di quasi 23 anni, sono diventata mamma da poco,
mio figlio non è stato consciamente cercato ma sapendo bene la possibilità di una gravidanza, sapevo che sarebbe potuto accadere.
La relazione con il mio compagno non era delle migliori (nessuna delle mie relazioni però lo è mai stata) e una volta scoperto il positivo del test ho pensato di abortire per tre volte, senza mai effettivamente presentarmi ai giorni fatidici.
Ora come ora non mi pento di non averlo fatto, ma subito dopo il parto ho vissuto dei giorni di lutto terribile; guardavo mio figlio e lo amavo ma mi sentivo intrappolata in questa nuova vita da madre e continuavo ad avere discussioni con il mio compagno affinché si prendesse lui totalmente carico del bimbo.
Ricominciata la terapia le cose sono cambiate e io non ho più avuto quel pensiero verso il mio bambino che non vorrei mai separare da me, ma continuo a nutrire forte rancore e dubbi verso il mio compagno.
Prima di rimanere incinta avevo provato a interrompere la relazione diverse volte, ma lui (con qualche problema di attaccamento secondo me) l'ha sempre reso difficile.
Sfinita dovevo ogni volta 'cacciarlo' da fuori casa o da fuori il mio lavoro (dove veniva nonostante gli dicessi di no) ma puntualmente ritornava chiedendo insistentemente di parlare ogni volta quando ormai lo avevamo già fatto.
Io, un po' per stupidità e un po' per voglia di fargli capire la fine, sono andata con altri ragazzi e nonostante questa cosa lo facesse immensamente soffrire era sempre disposto ad 'aspettare' il mio ritorno fin quando un giorno esausto mi dice di aver baciato anche lui un'altra ragazza.
Io, che in quel momento ero da uno degli altri ragazzi che frequentavo, ho avuto una reazione isterica e minacciai di uccidermi di fronte a quel fatto.
Come se le sue rincorse mi facessero sentire 'importante' e perderle era più grave della presenza o meno dell'amore.
Così io lo riaccettai più volentieri ma mantenendo i miei rapporti paralleli con gli altri e conducendo uno stile di vita inappropriato (uscire tardi anche se lavoravo, usare sostanze e avere rapporti promiscui) fino al giorno del test di gravidanza.
Dopo il positivo ho sentito in me una grande responsabilità e volontà d'amore incondizionata da smettere con qualsiasi cosa (persino le sigarette che mi sembrava impossibile) e ho cercato di avere un'apparente relazione idonea con il mio compagno che era (ed è tuttora) felice di diventare padre.
Specifico che lui era contro il mio stile di vita estremo e io reputavo in qualche modo lui mi ancorasse al bene prima di voler chiudere la relazione.
Ora non capisco più niente, chi sono, cosa provo e perché sento comunque di volerlo lasciare.
Chiedo un parere per una situazione che mi sta facendo soffrire e vivere meno serenamente la mia maternità.
Premetto che sono già seguita da un'equipe di psicologi e da uno psichiatra e ho recentemente reintrodotto la terapia con paroxetina per sintomi compatibili con baby blues.
Sono una ragazza di quasi 23 anni, sono diventata mamma da poco,
mio figlio non è stato consciamente cercato ma sapendo bene la possibilità di una gravidanza, sapevo che sarebbe potuto accadere.
La relazione con il mio compagno non era delle migliori (nessuna delle mie relazioni però lo è mai stata) e una volta scoperto il positivo del test ho pensato di abortire per tre volte, senza mai effettivamente presentarmi ai giorni fatidici.
Ora come ora non mi pento di non averlo fatto, ma subito dopo il parto ho vissuto dei giorni di lutto terribile; guardavo mio figlio e lo amavo ma mi sentivo intrappolata in questa nuova vita da madre e continuavo ad avere discussioni con il mio compagno affinché si prendesse lui totalmente carico del bimbo.
Ricominciata la terapia le cose sono cambiate e io non ho più avuto quel pensiero verso il mio bambino che non vorrei mai separare da me, ma continuo a nutrire forte rancore e dubbi verso il mio compagno.
Prima di rimanere incinta avevo provato a interrompere la relazione diverse volte, ma lui (con qualche problema di attaccamento secondo me) l'ha sempre reso difficile.
Sfinita dovevo ogni volta 'cacciarlo' da fuori casa o da fuori il mio lavoro (dove veniva nonostante gli dicessi di no) ma puntualmente ritornava chiedendo insistentemente di parlare ogni volta quando ormai lo avevamo già fatto.
Io, un po' per stupidità e un po' per voglia di fargli capire la fine, sono andata con altri ragazzi e nonostante questa cosa lo facesse immensamente soffrire era sempre disposto ad 'aspettare' il mio ritorno fin quando un giorno esausto mi dice di aver baciato anche lui un'altra ragazza.
Io, che in quel momento ero da uno degli altri ragazzi che frequentavo, ho avuto una reazione isterica e minacciai di uccidermi di fronte a quel fatto.
Come se le sue rincorse mi facessero sentire 'importante' e perderle era più grave della presenza o meno dell'amore.
Così io lo riaccettai più volentieri ma mantenendo i miei rapporti paralleli con gli altri e conducendo uno stile di vita inappropriato (uscire tardi anche se lavoravo, usare sostanze e avere rapporti promiscui) fino al giorno del test di gravidanza.
Dopo il positivo ho sentito in me una grande responsabilità e volontà d'amore incondizionata da smettere con qualsiasi cosa (persino le sigarette che mi sembrava impossibile) e ho cercato di avere un'apparente relazione idonea con il mio compagno che era (ed è tuttora) felice di diventare padre.
Specifico che lui era contro il mio stile di vita estremo e io reputavo in qualche modo lui mi ancorasse al bene prima di voler chiudere la relazione.
Ora non capisco più niente, chi sono, cosa provo e perché sento comunque di volerlo lasciare.
Gentile utente,
dal momento che prende farmaci immagino che abbia ricevuto la diagnosi di borderline di cui parla nel titolo, e spero che allo psichiatra si affianchi uno psicoterapeuta. Non un'équipe, ma un* psicolog* ben precis* a cui lei voglia affidarsi.
Per noi specialisti le cose che lei scrive hanno una definizione clinica, sono cioè i sintomi del disturbo noto anche a lei.
Quello che però illumina di speranza le cose che scrive è la sua volontà di accogliere la gravidanza col recedere dall'uso di sostanze e rinunciando perfino al fumo.
Per il resto, l'impressione che il bambino e la vita da madre possano "intrappolarla", e soprattutto la sua resistenza al partner percepito come colui che la ancora al bene, il continuo violento oscillare tra il ferire a morte questa relazione e il sentire un bisogno spasmodico di essere amata ad oltranza proprio da colui che lei ferisce e rifiuta, sono i sintomi della sua malattia.
Si delinea però, mi sembra, anche la volontà di uscirne.
Con il curante idoneo può costruire un futuro di inimmaginato benessere, per sé, per suo figlio e per il suo compagno, risolvendo i dilemmi che la attanagliano: "Ora non capisco più niente, chi sono, cosa provo e perché sento comunque di volerlo lasciare".
Coraggio. Intreccio le dita per tutti e tre voi; ce la metta tutta.
dal momento che prende farmaci immagino che abbia ricevuto la diagnosi di borderline di cui parla nel titolo, e spero che allo psichiatra si affianchi uno psicoterapeuta. Non un'équipe, ma un* psicolog* ben precis* a cui lei voglia affidarsi.
Per noi specialisti le cose che lei scrive hanno una definizione clinica, sono cioè i sintomi del disturbo noto anche a lei.
Quello che però illumina di speranza le cose che scrive è la sua volontà di accogliere la gravidanza col recedere dall'uso di sostanze e rinunciando perfino al fumo.
Per il resto, l'impressione che il bambino e la vita da madre possano "intrappolarla", e soprattutto la sua resistenza al partner percepito come colui che la ancora al bene, il continuo violento oscillare tra il ferire a morte questa relazione e il sentire un bisogno spasmodico di essere amata ad oltranza proprio da colui che lei ferisce e rifiuta, sono i sintomi della sua malattia.
Si delinea però, mi sembra, anche la volontà di uscirne.
Con il curante idoneo può costruire un futuro di inimmaginato benessere, per sé, per suo figlio e per il suo compagno, risolvendo i dilemmi che la attanagliano: "Ora non capisco più niente, chi sono, cosa provo e perché sento comunque di volerlo lasciare".
Coraggio. Intreccio le dita per tutti e tre voi; ce la metta tutta.
Prof.ssa Anna Potenza
Riceve in presenza e online
Primo consulto gratuito inviando documento d'identità a: gairos1971@gmail.com
Utente
Intanto la ringrazio infinitamente per la risposta.
Ho provato con numerose terapie prima di ora e solo nel 2024 mi hanno fatto dei test per il disturbo borderline dicendomi di averne dei caratteri, inserendomi in un gruppo ma non ho capito quindi se è stata effettuata una diagnosi oppure no perché nelle sedute poi parlano di 'mio disturbo' ma se chiedo delucidazioni a riguardo mi viene risposto semplicemente che ne ho delle caratteristiche.
Dicevo équipe in quanto ho uno psichiatra, una psicologa, un'infermiera e un'educatrice a seguirmi ma in questi due anni di terapia con loro (ma dai 16 ai 19 seguita da un'altra parte) non ho finora trovato giovamento. O meglio, se lo trovo è sempre momentaneo mai duraturo e strettamente connesso al rapporto che ho con il 'partner del momento' coi quali sviluppo un po' di dipendenza.
La mia delusione sta anche nell'idea di crescere mio figlio con questi sentimenti e/o atteggiamenti disfunzionali e non dargli una famiglia amorevole come volevo.
Come posso pensare di provare e insegnare l'amore se non sono mai sicura di niente e di nessuno?
Ho provato con numerose terapie prima di ora e solo nel 2024 mi hanno fatto dei test per il disturbo borderline dicendomi di averne dei caratteri, inserendomi in un gruppo ma non ho capito quindi se è stata effettuata una diagnosi oppure no perché nelle sedute poi parlano di 'mio disturbo' ma se chiedo delucidazioni a riguardo mi viene risposto semplicemente che ne ho delle caratteristiche.
Dicevo équipe in quanto ho uno psichiatra, una psicologa, un'infermiera e un'educatrice a seguirmi ma in questi due anni di terapia con loro (ma dai 16 ai 19 seguita da un'altra parte) non ho finora trovato giovamento. O meglio, se lo trovo è sempre momentaneo mai duraturo e strettamente connesso al rapporto che ho con il 'partner del momento' coi quali sviluppo un po' di dipendenza.
La mia delusione sta anche nell'idea di crescere mio figlio con questi sentimenti e/o atteggiamenti disfunzionali e non dargli una famiglia amorevole come volevo.
Come posso pensare di provare e insegnare l'amore se non sono mai sicura di niente e di nessuno?
Gentile utente,
da quello che dice si può pensare che il suo disturbo non coinvolga la personalità, ma sia quello che si definisce "attaccamento evitante": lei non si sente idonea ad essere amata, quindi sfida continuamente la persona che le sta accanto, la mette alla prova fino all'inverosimile, finendo per distruggere la relazione. Inoltre sceglie come partner o altri evitanti, che rifiutando, come lei, la connessione profonda con un altro, col loro abbandono confermano la sua idea di non poter essere amata; oppure dipendenti affettivi che hanno bisogno di essere maltrattati e vilipesi per mostrare il proprio attaccamento, perdendo la sua stima.
Si tratta, con l'aiuto dei curanti, di analizzare le sue resistenze ad una relazione sana via via che si producono ed esercitarsi a superarle.
Noti per esempio la formulazione di queste frasi: "La mia delusione sta anche nell'idea di crescere mio figlio con questi sentimenti e/o atteggiamenti disfunzionali e non dargli una famiglia amorevole come volevo".
In realtà lei ama suo figlio fin dal concepimento, al punto che ha fatto enormi rinunce per lui, ma anziché riconoscersi questi meriti è già "delusa" di sé, e teme atteggiamenti disfunzionali che forse non ci saranno mai, o ci saranno nella misura in cui tutti gli esseri umani sbagliano; e questi atteggiamenti potranno essere corretti dalla sua volontà consapevole di fare il meglio che può.
Lei e suo figlio siete inoltre una famiglia; il piccolo certamente chiede e manifesta amore. Lei può imparare da lui a restituire questo amore, anche col non negargli la presenza di suo padre, sia che restiate in coppia sia che vi orientiate diversamente.
Anche su questo, lei adesso ha l'occasione per esercitarsi a praticare le modalità della coppia sana, per vedere dove questo esercizio la conduce.
Fin qui non ha mai costruito relazioni, a quel che capisco; ha avuto solo incontri forse meno gratificanti che abusanti, ma non ha voluto o potuto restare nelle relazioni, il che vuol dire elaborarne le regole, riconoscere i propri diritti, conoscere l'altro per accettarlo, e così via.
Tutto questo può venire da un produttivo lavoro con la psicologa che la segue.
Auguri infiniti.
da quello che dice si può pensare che il suo disturbo non coinvolga la personalità, ma sia quello che si definisce "attaccamento evitante": lei non si sente idonea ad essere amata, quindi sfida continuamente la persona che le sta accanto, la mette alla prova fino all'inverosimile, finendo per distruggere la relazione. Inoltre sceglie come partner o altri evitanti, che rifiutando, come lei, la connessione profonda con un altro, col loro abbandono confermano la sua idea di non poter essere amata; oppure dipendenti affettivi che hanno bisogno di essere maltrattati e vilipesi per mostrare il proprio attaccamento, perdendo la sua stima.
Si tratta, con l'aiuto dei curanti, di analizzare le sue resistenze ad una relazione sana via via che si producono ed esercitarsi a superarle.
Noti per esempio la formulazione di queste frasi: "La mia delusione sta anche nell'idea di crescere mio figlio con questi sentimenti e/o atteggiamenti disfunzionali e non dargli una famiglia amorevole come volevo".
In realtà lei ama suo figlio fin dal concepimento, al punto che ha fatto enormi rinunce per lui, ma anziché riconoscersi questi meriti è già "delusa" di sé, e teme atteggiamenti disfunzionali che forse non ci saranno mai, o ci saranno nella misura in cui tutti gli esseri umani sbagliano; e questi atteggiamenti potranno essere corretti dalla sua volontà consapevole di fare il meglio che può.
Lei e suo figlio siete inoltre una famiglia; il piccolo certamente chiede e manifesta amore. Lei può imparare da lui a restituire questo amore, anche col non negargli la presenza di suo padre, sia che restiate in coppia sia che vi orientiate diversamente.
Anche su questo, lei adesso ha l'occasione per esercitarsi a praticare le modalità della coppia sana, per vedere dove questo esercizio la conduce.
Fin qui non ha mai costruito relazioni, a quel che capisco; ha avuto solo incontri forse meno gratificanti che abusanti, ma non ha voluto o potuto restare nelle relazioni, il che vuol dire elaborarne le regole, riconoscere i propri diritti, conoscere l'altro per accettarlo, e così via.
Tutto questo può venire da un produttivo lavoro con la psicologa che la segue.
Auguri infiniti.
Prof.ssa Anna Potenza
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Questo consulto ha ricevuto 3 risposte e 867 visite dal 04/03/2025.
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