Timidezza e angoscia

Gentili dottori,
sono un trentunenne torturato dalla propria angoscia. La mia eccessiva timidezza (che forse, in termini più precisi, sarebbe definibile come una gravissima forma di fobia sociale) mi ha portato a non avere amicizie, a non andare via di casa, a non avere amori e lavoro... la sola parvenza di occupazione è una saltuaria collaborazione con la disgraziata ditta di un parente. In breve, la mia timidezza mi ha sempre impedito di corteggiare ragazze, di interagire spensieratamente con qualunque persona, financo di uscire di casa e attraversare la strada senza la preoccupazione di sembrare un imbranato (in perfetto stile Carlo Verdone in una celeberrima scena di “Bianco Rosso e Verdone”). Di fatto, mi reputo escluso dal mercato del lavoro ed esposto a futura miseria. L'angoscia da tempo mi tormenta ma questo tormento si è trasformato in vera e propria tortura da quando un conoscente è diventato orfano di madre e di padre. Questo conoscente - finito in un'inesorabile disoccupazione alcuni anni fa dopo aver avuto un modestissimo impiego - in modo neanche troppo velato, ha domandato aiuto ai miei genitori e ad altri suoi numerosi amici. Ormai è rovinato affettivamente e finanziariamente. Ed io, innanzi a questo spettacolo di inesorabile rovina, non potevo restare indifferente. Io potrei stare peggio di quel poveraccio! Mia madre è sulla settantina, mio padre sull'ottantina; loro sono le colonne portanti della mia vita. Percepisco un senso di terribile impotenza e di umiliante inutilità. In passato avevo tentato di andare da uno specialista per liberarmi di quella pesante zavorra che era – ed è – la mia timidezza ma non sono riuscito nel mio intento (tra l'altro, so già che non riuscirei a confidarmi con lui). E adesso alla timidezza si è unita questa crudele angoscia. Sono molto avvilito, non so che fare e la dipendenza affettiva ed economica dai miei genitori mi appare come una chiara condanna alla povertà e alla solitudine. Credo che se vivessi in una situazione normale, la mia angoscia sarebbe uguale all'angoscia di chiunque. Che si fa quando una situazione – realisticamente ormai immodificabile – determina uno stato psichico intollerabile? Spero che nella Vostra esperienza ci sia stato qualche caso disperato simile al mio.
Scusandomi per il mio lungo mesaggio, porgo i miei più cordiali saluti.
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Dr.ssa Angela Pileci Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 19.7k 506 41
Gentile Utente,

quando scrive:

"La mia eccessiva timidezza (che forse, in termini più precisi, sarebbe definibile come una gravissima forma di fobia sociale) ..."

per prima cosa bisognerebbe comprendere di che cosa stiamo parlando.

Legga qui:

https://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/1087-le-abilita-sociali.html

La timidezza, se diventa invalidante e se vista come una mancanza di abilità sociali, può essere in parte modificata. Se parliamo di fobia sociale, è chiaro che deve prima esserci una diagnosi chiara da parte di uno psicologo e poi una adeguata correzione del disagio.

"avevo tentato di andare da uno specialista per liberarmi di quella pesante zavorra .."

e come è andata?

Dott.ssa Angela Pileci
Psicologa,Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale
Perfezionata in Sessuologia Clinica

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Dr.ssa Flavia Massaro Psicologo 12.5k 233 114
Gentilissimo,

se rileggerà il suo post avrà chiaro anche lei come il suo atteggiamento sia un grave ostacolo all'apertura di qualunque spiraglio nel muro di oppressione e disperazione che la circonda.

Lei parla di "condanna", di "situazione immutabile", di "senso di terribile impotenza e umiliante inutilità" che si può pensare sia anche conseguenza di troppi anni vissuti all'insegna del ritiro sociale e della possibile involontaria autocastrazione (ovviamente metaforica) causata dalla forte timidezza e dalla paura del rifiuto.

E' molto negativo che definisca in maniera così perentoria una situazione che, probabilmente, un intervento adeguato potrebbe sbloccare.

Lei è il primo a non credere in sè stesso, e in questo modo non potrà certo ottenere simpatia o consenso da parte di altri.
Per cambiare perciò è necessario che riparta da sè e dal linguaggio che utilizza per definirsi e per definire la sua esistenza.
Immagino che non tutto sia stato negativo nella sua vita, e se vuole che la quota di elementi positivi aumenti deve essere lei per primo a darsi una possibilità.

Ma in fondo se ha deciso di scrivere a noi significa che ha ancora la speranza di risollevarsi e cambiare un "destino" che in cuor suo non sente veramente come già scritto.

Non ci dice molto del tentativo di farsi aiutare che ha alle spalle, ma in ogni caso le posso dire che è perfettamente normale poter incontrare un medico o uno psicologo con il quale non ci si trova bene: siamo persone come tutte le altre, e l'importante è che un primo tentativo finito in nulla non ostacoli la sua ricerca di un'altra soluzione.

A mio avviso farebbe bene a prendere contatto con uno psicologo psicoterapeuta cui esporre la situazione e con cui discutere la possibilità di consultare un medico psichiatra per intraprendere anche un trattamento psicofarmacologico ad integrazione della psicoterapia.

Spero che lo farà, non ha davvero nessun motivo per arrendersi!

Dr.ssa Flavia Massaro, psicologa a Milano e Mariano C.se
www.serviziodipsicologia.it

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dopo
Utente
Utente
Gentilissima dottoressa Pileci,
ho letto con molta attenzione l'interessante link che Lei mi ha indicato. Dopo un attento esame, credo di poter confermare che la mia timidezza è alquanto grave; dal link prendo in considerazione tre punti:
1) “Esempi di abilità sociali sono salutare, ringraziare, presentarsi, iniziare e continuare una conversazione, chiedere aiuto, fornire aiuto, tenersi puliti e in ordine (si insegna ai portatori di handicap), fare richieste, esprimere disaccordo, respingere richieste inaccettabili, ecc...”
Presentarmi, iniziare e continuare una conversazione, chiedere aiuto, fare richieste, esprimere disaccordo, mi è sempre stato difficilissimo per una pluralità di motivi, ad esempio la percezione che ho di me stesso per la quale di me non amo il video – dunque le mie caratteristiche somatiche – e desto l'audio, ossia il timbro della mia voce non l'accento che ho provveduto a correggere alcuni anni fa. A questa percezione di me stesso, potrei sommare plurime esperienze scoraggianti vissute in ambito scolastico e il rapporto conflittuale con mio padre.
2 “Tra le abilità sociali un’attenzione particolare merita l’assertività, cioè la capacità di:
- esprimere in modo socialmente adeguato e costruttivo i propri diritti ed interessi senza ledere i diritti altrui
- manifestare i propri sentimenti, sia positivi che negativi
- richiedere adeguatamente cambiamenti nei comportamenti di coloro con i quali si interagisce
- esprimere opinioni contrarie a quelle degli altri
- “dire di no” a richieste irragionevoli e chiedere favori agli altri
- riconoscere i propri limiti e i propri fallimenti
- gestire efficacemente le critiche e la pressione sociale”.
Non mi riesce di manifestare i miei sentimenti sia positivi che negativi perché vedo negli altri schernitori e giudici, è contrario alla mia indole e alle mie abitudini richiedere cambiamenti nei comportamenti di gente estranea con cui mi accade di interagire, evito accuratamente di esprimere opinioni contrarie a quelle degli altri non perché in me ci sia l'idea di rinunciare al mio pensiero o il proposito di compiacere chi mi ascolta ma piuttosto perché per spiegare un'opinione fuori dal coro occorre una rara capacità di ascolto e una ancora più rara disponibilità a mettere in dubbio i propri “idoli”... certo, avere degli “idoli” dà serenità, permette di essere in quel centro di gravità permanente di cui parlava Battiato, la serenità dell'”idolo” ha degli aspetti positivi, tuttavia non dispone ad un dialogo con chi non ha idoli ed è pieno di incertezze ed inquietudine. Per altro, vedo i miei limiti e non so come superarli, constato i miei fallimenti ma so che non avrei potuto evitarli. Ed è questa superiore forza che vedo nei miei limiti a rendermi inaccettabile la critica e la pressione sociale, appunto perché considerata espressione di una incomprensività che non vuole sentire né scuse né ragioni.
3) “È importante ricordare che la qualità e la quantità di adattamento sociale che una persona dimostra già in età infantile sembra predire con notevole precisione la qualità di adattamento che si avrà nell’età adulta (Parker e Asher, 1987).”
Intuizione notevole questa di Parker e Asher. Per me adattarmi al modo di parlare e agire dei miei compagni era molto difficile; quando mio padre si rifiutò di accompagnarmi alla festa di compleanno di un compagno mi condannò – senza neanche rendersene conto – all'inimicizia del “gruppo” dei compagni, per cui non s'offese con me solo il festeggiato ma anche un altro bambino. Mi rendo conto che in questo caso possa sembrare improprio parlare di gruppo dato che l'ostilità nei miei confronti giungeva, in particolare, da due sole persone ma l'esempio è eloquente perché rappresenta un sentimento che a me, prima dell'età scolare, era del tutto ignoto: l'ostilità per solidarietà. Mai io avrei avuto del rancore verso un mio compagno se questi non avesse potuto – o voluto – essere presente a una festa di compleanno, anche se questa festa fosse stata la mia. Insomma, con l'esempio della punizione per la mia assenza dalla festa di compleanno intendo dire che tutti questi bambini obbedivano a regole che sembravano stabilite prima del mio arrivo a scuola, regole di gruppo che nulla avevano a che spartire con le sole leggi da me osservate: l'obbedienza ai genitori, in particolare alla madre, e la completa sincerità nei confronti di mia madre al di sopra di ogni possibile complicità con i compagni di classe. Questo legame speciale coi miei genitori fece di me un escluso dal “gruppo” e, forse, farà di me un emarginato. Senza dubbio le cause che hanno determinato la mia attuale condizione sono plurime ma, proprio in riferimento all'infanzia e alla mia attuale dipendenza dai genitori, sarebbe opportuno evidenziare sempre l'antitesi mondo familiare – mondo esterno che ha caratterizzato la mia vita. E dunque, ora che posso fare poco o niente per cambiare la mia sorte, Le domando: serve ragionare sulle cause e sul passato quando si profila davanti a me un futuro orribile? Fu un quesito simile, congiunto all'imbarazzo, ai pochi soldi e al senso di colpa per ogni spesa personale, a dissuadermi dal recarmi da uno psicologo. Alla Sua domanda “come è andata?” rispondo con franchezza e tristezza che non è andata affatto. Mi perdoni per aver scritto molto. Avrei voluto essere più sintetico ma il Suo testo – per cui mi congratulo con Lei – è stato per me molto stimolante... ed esigeva una risposta puntuale. Aspettando un Suo graditissimo riscontro e ringraziandoLa ancora per la Sua attenzione, La saluto augurandoLe una buona domenica.
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dopo
Utente
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Gentilissima Dottoressa Flavia Massaro,
Le sono grato sia per avermi risposto sia per l'incoraggiamento. In realtà - almeno consciamente - non credo che la mia situazione possa migliorare. Ho deciso di rivolgermi a persone come Lei, gente affermata nella società che conosce la psiche umana in modo professionale e profondo, per conoscere soluzioni che non riesco a vedere. Non le vedo e perdo speranze, non le vedo e mi dispero letteralmente. L'unica cosa che mi possa tranquillizzare è una strana anestesia fatta di giornate vissute alla giornata, senza progetti, senza futuro e senza oneri che ormai nessuno vuol darmi per la mia età e per il mio povero curriculum. Ma quando l'effetto di questa anestesia finisce, eccomi lì, davanti a minacciosi simboli di morte, a funerali e a miserie future... e non posso neanche pensare al suicidio dato che temo che Dio mi punirebbe con l'inferno. Il tentativo presso un terapeuta fu abortito per la mia demotivazione, per la mia paura di parlare liberamente e per il senso di colpa che mi fa star male ogni volta che spendo - o meglio, che faccio spendere - denaro per me. La saluto con sincera gratitudine per l'attenzione che mi ha rivolto e spero vivamente in un Suo ulteriore e graditissimo riscontro.
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Dr.ssa Flavia Massaro Psicologo 12.5k 233 114
Può essere più preciso nell'indicare cosa è andato storto in quel tentativo?
Si è trattato di una sola seduta?

Capisco bene il senso di colpa nei confronti dei suoi genitori che le pagarono questo tentativo, ma alla luce di quello che ci ha raccontato può considerare l'esborso necessario ad una psicoterapia come un investimento che le permetterà di riprendersi e di non finire in seguito sul lastrico perchè incapace di trovare e mantenere un lavoro.
Lei ci ha detto infatti questo:

"la dipendenza affettiva ed economica dai miei genitori mi appare come una chiara condanna alla povertà e alla solitudine",

e quindi dà per scontato che se continuerà così finirà solo e povero.
Penso dunque che tutto ciò che potrà permetterle di non fare quella fine sarà un ottimo investimento e che non avrà alcun motivo di sentirsi in colpa se farà in modo che i suoi genitori non si angoscino pensando che lei, da solo, potrebbe fare una brutta fine.
Non crede?
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Utente
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Gentilissima Dottoressa Massaro,
La ringrazio moltissimo per la risposta che percepisco come realmente empatica. Era stato fissato un appuntamento con uno psichiatra però, quando è arrivato il giorno, ho avuto una forte tensione e non ci sono andato più. Non avrei potuto sopportare il fatto di dover parlare dei miei problemi con un'altra persona de visu. Questo sarebbe il mio “tentativo”. Credo che, in linea teorica, potrebbe essere un ottimo investimento. Tuttavia, ho paura che possa diventare una perdita di danaro in quanto io sono una persona che difficilmente parla faccia a faccia dei propri problemi. Dinanzi ad un terapeuta, non sarei a mio agio, assolutamente; quindi potrei fornire una descrizione incompleta delle mie difficoltà, di alcuni episodi della mia vita e questo immagino che potrebbe vanificare lo sforzo stesso di affrontare nella vita reale uno psicologo o uno psichiatra. E poi mi domando e Le domando: “ma non è troppo tardi?” Al di là dell'incoraggiamento – per cui La ringrazio moltissimo – Lei crede veramente che possa ancora “salvarmi”? Le è capitato un caso simile al mio?
RingraziandoLa per la Sua graditissima risposta e augurandoLe una buona notte ed ogni bene, La saluto sperando in un Suo graditissimo riscontro.
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Dr.ssa Flavia Massaro Psicologo 12.5k 233 114
Quindi lei non è nemmeno arrivato a varcare la soglia dello studio.
La prossima volta andrà meglio.

Fra l'altro, basandomi su quello che ci dice, penso che sia opportuno cominciare a procedere con una terapia farmacologica e, non appena si sentirà un po' meglio, intraprendere una psicoterapia con uno psicologo psicoterapeuta.

Non ha alcun motivo di vergognarsi perchè la sua situazione non rappresenta nulla di così particolare da non poterne parlare: certamente se si guarda intorno non vedrà altre persone che stanno come lei, ma questo avviene per il semplice fatto che chi ha di questi problemi non lo sbandiera generalmente ai quattro venti - col risultato che molte persone in difficoltà come lei credono i essere le sole (o quasi) a stare così.

Troppo tardi?
Non direi proprio.
Considerando che lei può ragionevolmente aspettarsi di vivere almeno per altri 50 anni non pensa che valga la pena di viverli meglio dei primi 30?

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Utente
Utente
Sì, gentilissima Dottoressa Massaro,
non ho neanche varcato la soglia dello studio.
L'assunzione dei farmaci, razionalmente parlando, mi convince ma emotivamente parlando mi inquieta parecchio perché mi sembra di “doparmi” e di espormi a pericolose controindicazioni... soprattutto se il farmaco ha tra le controindicazioni il suicidio. E, per nessun motivo vorrei cadere dalla padella alla brace dell'inferno.
Le sono gratissimo per l'incoraggiamento, consistente anche nel non farmi sentire simile ad un tragicomico marziano, e per i Suoi consigli (che tenterò di seguire, nonostante sia molto improbabile che io riesca a recarmi da uno psichiatra e poi anche da uno psicologo). Peccato che una terapia on-line non sia praticabile in Italia (a differenza di quanto accade negli USA da quanto ho saputo).
La saluto augurandoLe ogni bene.
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Dr.ssa Flavia Massaro Psicologo 12.5k 233 114
"L'assunzione dei farmaci, razionalmente parlando, mi convince ma emotivamente parlando mi inquieta parecchio perché mi sembra di “doparmi” e di espormi a pericolose controindicazioni..."

Capisco benissimo i suoi timori, ma di fronte alla prospettiva di trovarsi solo e "sotto un ponte" - che dà per certa, se continuerà così - penso proprio che lei abbia nei confronti di sè stesso il preciso dovere di fare tutto il possibile per cambiare la situazione.

Le reazioni agli psicofarmaci sono in parte soggettive, ma lei li assumerà sotto la supervisione di uno psichiatra e quindi, se mai si verificasse qualche reazione indesiderata, potrete parlarne e cambiare cura.

I problemi nascono quando le persone si danno al fai-da-te e non seguono le indicazioni mediche, ma se lei lo farà potrà stare tranquillo.

La terapia on line in situazioni come la sua sarebbe davvero improponibile o perfino deleteria: se il suo problema è quello di avere a che fare con gli altri come potrebbe mai trarre un giovamento da una relazione terapeutica virtuale, che quindi asseconderebbe la sua tendenza al ritiro sociale?
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