Il pensiero del suicidio

Buonasera, mi rivolgo a questo sito a scopo informativo. Ho un'amica che da circa quattro anni soffre di forte ansia, causa anche di altri disturbi. Segue una terapia in modo davvero costante solo da pochi mesi. Di recente ha iniziato a sviluppare pensieri suicidi e, aprendosi con me, mi ha confidato come solo immaginare di non esserci più le trasmetta un forte senso di sollievo e benessere. Mi ha assicurato che queste immagini esistono solo in astratto e che in nessun caso avrebbe il coraggio (e, forse, la voglia) di concretizzarli. Come dire, le piace pensarlo, ma ultimamente più di prima. Mi chiedevo quanto questo genere di fantasie siano pericolose, se esiste il rischio reale di un atto concreto, che dall'astratto si passi al pratico e se sì, cosa potrebbe portare la persona a decidersi per un'opzione simile e cosa invece potrebbe aiutarla a ritrovare un po' di fiducia e serenità. Vi ringrazio, saluti cordiali.
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Dr. Francesco Emanuele Pizzoleo Psicologo, Psicoterapeuta 2.4k 122
Che tipo di terapia segue la sua amica?
Psicoterapia? Terapia Farmacologica? Entrambe?

Quello che le posso dire rispondendo alle sue domande è che:
- l’applicazione di metodiche terapeutiche mirate e specialistiche
- supporto sociale e familiare (quando possibile)
- aderenza e costanza alla/alle terapia/e da parte del/della paziente
- una buona relazione con il proprio curante
Costituiscono fattori protettivi del suicidio e quindi variabili che decrementano la possibilità che un pensiero suicidario possa shiftare in agito.

Dr. Francesco Emanuele Pizzoleo. Psicoterapia cognitiva e cognitivo comportamentale.

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dopo
Utente
Utente
Gentile Dottore, la ringrazio per la sua risposta. Lei segue una psicoterapia ma le è stata suggerita, insieme, una terapia farmacologica che però ha "messo in stallo", cioè l'ha rifiutata per decidere in un altro momento, poiché non era ritenuta di per sé assolutamente necessaria, solo un aiuto in più. Da quanto mi è concesso capire, non sente particolare fiducia nei confronti dei medici curanti. Ma forse bisogna darle tempo per aprirsi. Lei inoltre tende ad isolarsi molto, uscendo pochissimo e solo se per "dovere". Io sono la sua unica amica, e comunque non ci vediamo frequentemente come un tempo.
È possibile che un certo atteggiamento di chiusura, di mancanza di confronto con gli altri e il mondo esterno con la "protezione" psicologica che le mura di casa offrono e questi pensieri negativi sullo "scomparire" siano in qualche modo collegati, o almeno due facce della stessa medaglia?
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Dr. Francesco Emanuele Pizzoleo Psicologo, Psicoterapeuta 2.4k 122
Gentile amica,

quando uno specialista (suppongo medico psichiatra) prescrive una terapia farmacologica da associare alla psicoterapia, è utile che il/la paziente aderisca alla terapia senza decidere per sè ciò che ritiene giusto o sbagliato dato che lo specialista avrà ritenuto utile prescrivere dei farmaci sulla base di necessità scientifiche di trattamento.

Lei ci dice che la sua amica nutre non molta fiducia nei curanti. È possibile che abbia bisogno di tempo come ci riferisce o forse sarebbe il caso che questa sensazione di sfiducia venga comunicata dall’interessata al proprio terapeuta in modo tale da decidere come proseguire nel migliore dei modi le cure che le possano consentire di stare meglio. Anche una eventuale sensazione di sfiducia, è bene che venga comunicata allo specialista perché può essa stessa rappresentare fonte di approfondimento terapeutico.

Un carattere ed una emotività che vertono all’introversione dovrebbero essere gestiti in terapia e la mancanza di confronto con l’ambiente sociale unitamente ad una tendenza di ricerca costante di comfort casalingo potrebbero (si ricordi che siamo online e altro non possiamo fare che supporre in questi caso dato che manca la conoscenza clinica diretta della paziente) essere fattori di mantenimento del problema.

Però tutto quello che è stato ipotizzato sarebbe utile valutarlo con attenzione e direttamente in sede specialistica.

Cordiali saluti