Fatica ad accettare e a ''sopportare'' mio padre, e mi sento in colpa per questo
Gentili dottori, sono una ragazza di 31 anni, convivo felicemente e ho un lavoro che mi piace.
Scrivo per ciò che riguarda mio papà: un uomo che fatico ad accettare sia mio padre per via dei suoi atteggiamenti, che mi portano spesso ad evitarlo e a non voler incontrarlo e mi sento in colpa per questo.
E' sempre stato un uomo incline alla solitudine, all'essere taciturno e passatemi il termine, spesso ''depresso'', non si può mai contraddirlo, quando pensa una cosa dev'essere per forza così, non ha mai accettato di sbagliare, rovinando spesso molti climi familiari in vari contesti nel corso degli anni.
Devo sottolineare che un lutto familiare molto pesante ha colpito la nostra famiglia poco prima che nascessi io, e questo non l'ha mai superato.
Ho ricordi di infanzia di mio padre emotivamente assente, triste, ricordo più le sue sgridate che atteggiamenti di affetto.
Durante l'adolescenza è stato severo, e ai suoi occhi spesso mi sentivo invisibile. Mia mamma è sempre stata un po' sottomessa nei suoi confronti, l'ha sempre assecondato e poche volte gli è andata contro, perché sapeva che lui non ascoltava mai nessuno.
In questo momento si trova solo perché mia mamma è via per questioni familiari, e non fa altro che lamentarsi di essere stanco (è in pensione ma lavora ancora), non vuole stare insieme nei weekend per pranzi e cene, ma arrivati a questo punto sono stufa anch'io di invitarlo: ad una cena in famiglia poche sere fa (in cui dopo vari convincimenti è venuto) è stato zitto, con lo sguardo triste e assente, e dopo poche ore è voluto tornare a casa in quanto stanco.
Pur lavorando, in settimana mi sbatto per portargli del cibo dato che non sa cucinare e sembra non apprezzare, non mi dice ''grazie'', anzi lo vedo e non fa che ripetermi che è stanco e non ce la fa più: mi sono stancata di andare da lui, evito qualunque occasione per vederlo (anche nei giorni scorsi sceglievo orari in cui sapevo di non trovarlo in casa), non gli chiedo più di passare la domenica insieme perché di pregare la gente non ho voglia (anche perché se deve venire per fare il morto, che stia a casa da solo).
Ma ai suoi occhi, conoscendolo, poi siamo noi a non invitarlo.
Mia mamma, ora lontana, è consapevole del suo carattere ed è stufa anche lei di stargli dietro, Mi sento in colpa ma lui lo vedo come un peso: spesso mi capita di notte di sognare situazioni in cui gli urlo contro quello che penso di lui, poi mi sveglio e mi sento in colpa perché è mio padre, dovrei stargli vicino, essere empatica e comprenderlo... ma proprio non ce la faccio più.
Relazionarmi con lui è diventato un peso.
Scrivo per ciò che riguarda mio papà: un uomo che fatico ad accettare sia mio padre per via dei suoi atteggiamenti, che mi portano spesso ad evitarlo e a non voler incontrarlo e mi sento in colpa per questo.
E' sempre stato un uomo incline alla solitudine, all'essere taciturno e passatemi il termine, spesso ''depresso'', non si può mai contraddirlo, quando pensa una cosa dev'essere per forza così, non ha mai accettato di sbagliare, rovinando spesso molti climi familiari in vari contesti nel corso degli anni.
Devo sottolineare che un lutto familiare molto pesante ha colpito la nostra famiglia poco prima che nascessi io, e questo non l'ha mai superato.
Ho ricordi di infanzia di mio padre emotivamente assente, triste, ricordo più le sue sgridate che atteggiamenti di affetto.
Durante l'adolescenza è stato severo, e ai suoi occhi spesso mi sentivo invisibile. Mia mamma è sempre stata un po' sottomessa nei suoi confronti, l'ha sempre assecondato e poche volte gli è andata contro, perché sapeva che lui non ascoltava mai nessuno.
In questo momento si trova solo perché mia mamma è via per questioni familiari, e non fa altro che lamentarsi di essere stanco (è in pensione ma lavora ancora), non vuole stare insieme nei weekend per pranzi e cene, ma arrivati a questo punto sono stufa anch'io di invitarlo: ad una cena in famiglia poche sere fa (in cui dopo vari convincimenti è venuto) è stato zitto, con lo sguardo triste e assente, e dopo poche ore è voluto tornare a casa in quanto stanco.
Pur lavorando, in settimana mi sbatto per portargli del cibo dato che non sa cucinare e sembra non apprezzare, non mi dice ''grazie'', anzi lo vedo e non fa che ripetermi che è stanco e non ce la fa più: mi sono stancata di andare da lui, evito qualunque occasione per vederlo (anche nei giorni scorsi sceglievo orari in cui sapevo di non trovarlo in casa), non gli chiedo più di passare la domenica insieme perché di pregare la gente non ho voglia (anche perché se deve venire per fare il morto, che stia a casa da solo).
Ma ai suoi occhi, conoscendolo, poi siamo noi a non invitarlo.
Mia mamma, ora lontana, è consapevole del suo carattere ed è stufa anche lei di stargli dietro, Mi sento in colpa ma lui lo vedo come un peso: spesso mi capita di notte di sognare situazioni in cui gli urlo contro quello che penso di lui, poi mi sveglio e mi sento in colpa perché è mio padre, dovrei stargli vicino, essere empatica e comprenderlo... ma proprio non ce la faccio più.
Relazionarmi con lui è diventato un peso.
Buongiorno,
grazie per aver condiviso con tanta lucidità e profondità un vissuto che, purtroppo, molte persone si trovano a portare sulle spalle per anni: quello di un legame genitoriale che pesa, ferisce, e fa sentire in colpa anche quando si cerca solo di proteggersi.
Dalle sue parole emerge con chiarezza la stanchezza emotiva accumulata nel tempo: non è solo l’affaticamento di questi giorni, ma il risultato di una lunga storia relazionale, fatta di assenze affettive, rigidità comunicative, silenzi, un clima familiare sbilanciato, e un dolore mai elaborato che ha forse lasciato poco spazio per te.
La figura di suo padre sembra connotata da una modalità relazionale depressiva, egocentrata e scarsamente empatica, che l'ha messa fin dall’infanzia in una posizione di svantaggio emotivo: figlia, sì, ma anche spettatrice impotente di un disagio cronico che nessuno ha mai nominato né affrontato. In molte famiglie succede che il lutto non elaborato si trasformi in un’ombra transgenerazionale, condizionando la qualità delle relazioni future.
Non stupisce, quindi, che oggi viva una profonda ambivalenza: da un lato il dovere affettivo, il senso di colpa, l’eredità morale del è pur sempre mio padre ; dall’altro la consapevolezza che ogni contatto con lui espone a un logoramento relazionale che ha superato il limite del sostenibile.
È importante chiarire che non si è cattivi figli per aver bisogno di distanza da un genitore, soprattutto quando quel legame continua a costare troppo in termini emotivi. Prendersi cura non può significare annullarsi. E restare nella relazione a ogni costo non è un atto d’amore, ma spesso il tentativo disperato di ottenere, a posteriori, ciò che non si è ricevuto: riconoscimento, gratitudine, disponibilità.
Potrebbe trovarsi ora in un punto di svolta: iniziare a differenziare ciò che è suo da ciò che è di suo padre, smettendo di tentare di "salvarlo" o di cambiare qualcosa che, con ogni probabilità, non lei a poter trasformare. Spostare lo sguardo dal padre idealizzato (che avrebbe voluto) al padre reale (che ha avuto), pur nel dolore, può aprire lo spazio per una forma diversa di relazione, più protettiva per lei ma finalmente autentica.
Infine, ciò che sogna la notte (quei dialoghi urlati ma repressi nella veglia) non sono altro che il suo inconscio che cerca voce, giustizia simbolica e un modo per chiudere un cerchio che forse è rimasto aperto troppo a lungo.
Potrebbe esserle utile lavorarci in un contesto psicoterapeutico: non per "aggiustare" la figura del padre, ma per restituire a lei la libertà di scegliere, senza colpa, cosa fare oggi di quel legame.
Resto a disposizione,
grazie per aver condiviso con tanta lucidità e profondità un vissuto che, purtroppo, molte persone si trovano a portare sulle spalle per anni: quello di un legame genitoriale che pesa, ferisce, e fa sentire in colpa anche quando si cerca solo di proteggersi.
Dalle sue parole emerge con chiarezza la stanchezza emotiva accumulata nel tempo: non è solo l’affaticamento di questi giorni, ma il risultato di una lunga storia relazionale, fatta di assenze affettive, rigidità comunicative, silenzi, un clima familiare sbilanciato, e un dolore mai elaborato che ha forse lasciato poco spazio per te.
La figura di suo padre sembra connotata da una modalità relazionale depressiva, egocentrata e scarsamente empatica, che l'ha messa fin dall’infanzia in una posizione di svantaggio emotivo: figlia, sì, ma anche spettatrice impotente di un disagio cronico che nessuno ha mai nominato né affrontato. In molte famiglie succede che il lutto non elaborato si trasformi in un’ombra transgenerazionale, condizionando la qualità delle relazioni future.
Non stupisce, quindi, che oggi viva una profonda ambivalenza: da un lato il dovere affettivo, il senso di colpa, l’eredità morale del è pur sempre mio padre ; dall’altro la consapevolezza che ogni contatto con lui espone a un logoramento relazionale che ha superato il limite del sostenibile.
È importante chiarire che non si è cattivi figli per aver bisogno di distanza da un genitore, soprattutto quando quel legame continua a costare troppo in termini emotivi. Prendersi cura non può significare annullarsi. E restare nella relazione a ogni costo non è un atto d’amore, ma spesso il tentativo disperato di ottenere, a posteriori, ciò che non si è ricevuto: riconoscimento, gratitudine, disponibilità.
Potrebbe trovarsi ora in un punto di svolta: iniziare a differenziare ciò che è suo da ciò che è di suo padre, smettendo di tentare di "salvarlo" o di cambiare qualcosa che, con ogni probabilità, non lei a poter trasformare. Spostare lo sguardo dal padre idealizzato (che avrebbe voluto) al padre reale (che ha avuto), pur nel dolore, può aprire lo spazio per una forma diversa di relazione, più protettiva per lei ma finalmente autentica.
Infine, ciò che sogna la notte (quei dialoghi urlati ma repressi nella veglia) non sono altro che il suo inconscio che cerca voce, giustizia simbolica e un modo per chiudere un cerchio che forse è rimasto aperto troppo a lungo.
Potrebbe esserle utile lavorarci in un contesto psicoterapeutico: non per "aggiustare" la figura del padre, ma per restituire a lei la libertà di scegliere, senza colpa, cosa fare oggi di quel legame.
Resto a disposizione,
Dott.ssa Elisabetta Carbone
Psicologa sistemico relazionale | Sessuologa clinica |
psicologa@elisabettacarbone.it | 351.777.9483
Ex utente
Gentile dottoressa, la ringrazio tanto per le sue parole. Avevo incominciato, anni fa, due percorsi psicoterapeutici, il primo vigliaccamente interrotto subito, l'altro dopo pochi mesi in cui ho iniziato a vivere del benessere, dopo aver conosciuto quello che oggi è il mio compagno, complice anche la maternità della mia psicologa, che l'ha portata a prendersi una pausa. Credo anch'io però che questo percorso meriti di essere ripreso, devo trovare il coraggio di farlo, anziché continuare a vivere ignorando il problema come se sotto sotto non fosse importante. Le racconto inoltre che mio padre ha influenzato in qualche modo anche la mia sessualità: in passato, se mi concedevo dei rapporti fini a sé stessi mi sentivo in colpa, perché in casa mia il sesso è sempre stato un tabù e comunque qualcosa da vivere in una relazione stabile e ''seria'', questo mi ha sempre portato a una fatica nel lasciarmi andare con gli uomini a letto; ad oggi ho una relazione sessuale appagante con il mio compagno ma anche con lui, pur essendo nata fin da subito come una storia seria, ci ho messo tanto a lasciarmi andare mentalmente e fisicamente e solo dopo aver iniziato a convivere ho iniziato a essere felice e appagata al 100% sessualmente. Un pomeriggio, molti anni fa, cercando non ricordo cosa, mio padre ha trovato in camera mia un mio gioco erotico e senza mai dirmi nulla l'ha rotto e buttato via: me lo confessò mia madre imbarazzata. Come si è permesso? Cosa pensava di controllare facendo così? Ecco, riguardo mia madre: donna molto forte emotivamente e con cui ho al contrario tutt'altro tipo di relazione, ma questa sua sottomissione, questo suo essere accondiscendente con mio padre mi ha sempre dato una forte rabbia: più volte mi sono intromessa in alcune discussioni in cui mia madre si scusava per nulla o non rispondeva, col risultato che mio padre si arrabbiava con me dicendomi che non dovevo intromettermi. Se penso ancora a queste dinamiche la rabbia e la frustrazione che provo sono elevate.
Grazie per aver condiviso ancora con profondità e lucidità un altro pezzettino della sua narrazione.
Le sue parole raccontano una storia complessa, stratificata, ma anche già attraversata da trasformazioni importanti: il benessere ritrovato, una relazione affettiva e sessuale che oggi è soddisfacente, la consapevolezza lucida delle dinamiche familiari... Tutto questo è già frutto di un lavoro su di sé, anche se non sempre formalizzato in un percorso continuo.
È del tutto comprensibile che i precedenti percorsi siano stati interrotti: ci sono momenti della vita in cui non siamo ancora pronti a reggere il carico emotivo della profondità terapeutica, e altri in cui, per quanto si stia bene in superficie, ci si accorge che alcune ferite restano aperte, silenziose, ma attive.
E ciò che porta oggi è tutt’altro che secondario. Perché riguarda:
la sessualità, come espressione dell’identità e del corpo
la colpa legata al piacere, come eredità culturale e familiare
la rabbia verso una madre amata ma percepita come silente, e verso un padre intrusivo, svalutante, emotivamente immobile
la frustrazione adulta di vedere queste dinamiche ancora in atto, anche se si è cresciuti, autonomi, capaci di stare in relazioni diverse.
L’episodio del gioco erotico è emblematico: non serve urlare per esercitare un controllo sul corpo e sulla libertà dell’altro. Quel gesto silenzioso, complice l’omertà familiare, è stato profondamente invasivo. Eppure, come spesso accade, non è stato legittimato da nessuno tranne da lei, ora, mettendolo a fuoco e nominandolo. Il fatto che oggi lei riesca a guardare tutto questo con chiarezza, ma anche con dolore, suggerisce che forse questo è il momento giusto per riprendere il percorso interrotto.
Ci sono ferite che non vanno ignorate né drammatizzate: vanno semplicemente attraversate con chi sa accompagnare senza giudicare. Il fatto che oggi viva una relazione sana e appagante è un punto di forza, non un motivo per rimandare. Anche quando si sta bene, ci si può concedere di guarire più a fondo.
Resto a disposizione,
Le sue parole raccontano una storia complessa, stratificata, ma anche già attraversata da trasformazioni importanti: il benessere ritrovato, una relazione affettiva e sessuale che oggi è soddisfacente, la consapevolezza lucida delle dinamiche familiari... Tutto questo è già frutto di un lavoro su di sé, anche se non sempre formalizzato in un percorso continuo.
È del tutto comprensibile che i precedenti percorsi siano stati interrotti: ci sono momenti della vita in cui non siamo ancora pronti a reggere il carico emotivo della profondità terapeutica, e altri in cui, per quanto si stia bene in superficie, ci si accorge che alcune ferite restano aperte, silenziose, ma attive.
E ciò che porta oggi è tutt’altro che secondario. Perché riguarda:
la sessualità, come espressione dell’identità e del corpo
la colpa legata al piacere, come eredità culturale e familiare
la rabbia verso una madre amata ma percepita come silente, e verso un padre intrusivo, svalutante, emotivamente immobile
la frustrazione adulta di vedere queste dinamiche ancora in atto, anche se si è cresciuti, autonomi, capaci di stare in relazioni diverse.
L’episodio del gioco erotico è emblematico: non serve urlare per esercitare un controllo sul corpo e sulla libertà dell’altro. Quel gesto silenzioso, complice l’omertà familiare, è stato profondamente invasivo. Eppure, come spesso accade, non è stato legittimato da nessuno tranne da lei, ora, mettendolo a fuoco e nominandolo. Il fatto che oggi lei riesca a guardare tutto questo con chiarezza, ma anche con dolore, suggerisce che forse questo è il momento giusto per riprendere il percorso interrotto.
Ci sono ferite che non vanno ignorate né drammatizzate: vanno semplicemente attraversate con chi sa accompagnare senza giudicare. Il fatto che oggi viva una relazione sana e appagante è un punto di forza, non un motivo per rimandare. Anche quando si sta bene, ci si può concedere di guarire più a fondo.
Resto a disposizione,
Dott.ssa Elisabetta Carbone
Psicologa sistemico relazionale | Sessuologa clinica |
psicologa@elisabettacarbone.it | 351.777.9483
Ex utente
Grazie dottoressa , grazie infinite. Aggiungo un altro pensiero che spesso mi ha fatto sentire in colpa, ovvero l’aver pensato spesso, da ragazzina soprattutto, che sarei stata meglio qualora mio papà fosse morto. Ad oggi mi capita di pensare a come reagirò quando arriverà questo momento, mentre invece mi terrorizza l’idea che possa succedere qualcosa ad altre persone a me vicine, ma lui no. E mi dispiace. Anche perché tutto sommato, so che mio padre mi vuole bene e a modo suo in alcuni momenti me l’ha dimostrato
Questo consulto ha ricevuto 4 risposte e 603 visite dal 20/07/2025.
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