Silenzio punitivo

Buonasera, ho 41 anni e una relazione da 16 anni.

Per fare una breve premessa, ho avuto un'infanzia da bambina adultizzata, un'adolescenza segnata dall'ansia, che adesso cerco di governare come posso, ma che mi ha creato molti problemi.

Per uno scherzo del destino, sia mia madre, che il mio compagno, attuano il silenzio punitivo nei miei confronti, qualora io non risponda alle loro aspettative, facendomi sentire a volte inadeguata o provando a farmi sentire anche in colpa, loro mi vogliono sempre performante e perfetta.

Il mio compagno non era così anni fa, adesso sembra essersi adeguato allo standard.

Per fare un esempio, in questo periodo sto frequentando un corso di formazione, oggi mi sono alzata con la pressione bassa, sarà per il caldo e le poche ore di sonno ogni notte, fatto sta che non me la sentivo di andare.

Lui mi ha ignorata per l'intera giornata, come se avessi commesso qualcosa di grave, come ha già fatto in altre occasioni, per altri motivi.

Io vorrei capire cosa spinga le persone più vicine a me, ad avere questi atteggiamenti, a creare il vuoto intorno a me.

Grazie.
Dr.ssa Elisa Scuderi Psicologo 114 2
Gentile Utente,
la sua condivisione è densa, intensa, e porta con sé una storia che sembra avere radici profonde e stratificate.

Quando lei racconta dell’infanzia da "bambina adultizzata", e poi descrive il silenzio punitivo come modalità relazionale tanto da parte di sua madre quanto del suo compagno, viene da chiedersi: che tipo di spazio è stato lasciato, fin da piccola, al suo bisogno di essere vista, accolta, di poter essere imperfetta?
E ancora: quante volte si è sentita amata non per quello che faceva, ma per quello che era, anche nei suoi momenti di fragilità, stanchezza o esitazione?

Il silenzio punitivo, lo sa, non è semplice assenza di parole. È una forma potente di controllo relazionale. Comunica disapprovazione senza possibilità di confronto, facendo leva sul senso di colpa e sull’ansia di perdere il legame. È un modo per dire "non vali", "mi hai deluso/a" o "mi allontano da te finché non torni come voglio". In questo silenzio, chi lo subisce spesso si sente piccolo, disorientato, colpevole anche quando non c’è colpa.

Mi chiedo: che posto sente di avere oggi, nella relazione con il suo compagno, quando non riesce ad essere performante? Cosa sente di valere quando si prende cura di sé, anche solo decidendo di riposare per un giorno?

E ancora: che ruolo sente di giocare nel mantenere questo tipo di comunicazione? Quali aspettative interiorizzate le impediscono di opporsi, o di porre limiti?

A volte, ci si abitua a sentirsi "sbagliati" quando si deludono le attese altrui, e ci si convince che il legame dipenda dalla nostra costante disponibilità. Ma le relazioni, quelle sane, non chiedono la perfezione. Chiedono autenticità, presenza, ascolto reciproco.

Le relazioni possono cambiare. I linguaggi possono evolversi. Ma perché questo accada, è necessario riconoscere quanto di quel silenzio accettiamo come inevitabile e se, invece, ci siano spazi in cui possiamo iniziare a parlare diversamente, anche solo dentro di noi. Incontro molto spesso queste dinamiche nel mio lavoro, e il primo passo, il più utile, e' iniziare da sé, prima ancora che dall’altro: riconoscere i meccanismi che si ripetono, il ruolo che si è imparato a giocare (anche senza volerlo) e scoprire alternative nuove, più rispettose dei propri bisogni.

Spesso è un lavoro che ha bisogno di uno spazio protetto, strutturato, in cui poter rimettere insieme i fili, distinguere ciò che si può cambiare da ciò che va lasciato, e scegliere finalmente una direzione diversa.

Le lascio questa domanda, che può essere scomoda ma necessaria: che cosa teme potrebbe accadere, se iniziasse a rispondere al silenzio degli altri con la voce della sua verità?

Quando si comincia a porsi queste domande, spesso è già iniziato qualcosa.

Spero che queste riflessioni possano esserle utili.

Resto a disposizione, un caro saluto
E.S. 

Dott.ssa Elisa Scuderi
Psicologa | A Genova e online
📧 elisascuderi.ge@gmail.com
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Utente
Utente
Grazie per la sua risposta.
Io nemmeno so cosa sia l'accoglienza in ambito familiare,da bambina mi sentivo un corpo estraneo ed è tutt'ora così.
Ciò che mi rende frustrata è vedere che quest'accoglienza non la trovo nemmeno nel mio compagno,che più passa il tempo e più si rivela una persona emotivamente arida,anzi,si scoccia proprio di fronte alle mie défaillances.
Io devo essere madre,compagna,lavoratrice ed essere tutta d'un pezzo,altrimenti sono una persona debole e inaffidabile.
Io ho fatto anni di terapia,le persone sopracitate nemmeno mezz'ora e io a volte devo andarci anche per loro,il carico emotivo è sempre sulle mie spalle e ci rimetto anche fisicamente.
Grazie ancora.
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Dr.ssa Elisa Scuderi Psicologo 114 2
Cara Utente,
capisco ciò che scrive e sento, nelle sue parole, una stanchezza profonda.
Quando dice "nemmeno so cosa sia l’accoglienza", sta nominando una ferita antica, che si riattiva ogni volta che, da adulta, viene ancora esclusa, giudicata, lasciata sola proprio nei momenti in cui avrebbe più bisogno di essere vista.

Essere sempre lei quella che regge tutto (la relazione, le emozioni, la famiglia) l’ha forse resa forte, ma a che prezzo?
Quanta parte di sé ha dovuto mettere da parte, per "tenere in piedi" gli altri? E cosa accadrebbe se iniziasse a non farlo più?

A volte il dolore più grande non è quello che ci viene fatto, ma quello che continuiamo a infliggerci restando in ruoli che ci spengono.
Lei ha già fatto un percorso. E forse ora è il momento di usarlo non più per capire gli altri, ma per chiedersi: come voglio stare io, in questa relazione? Qual è la mia modalità, oggi, per non perdermi più?

Ci sono modi per farlo. Personalissimi. Ma serve uno spazio in cui poterli riconoscere e costruire.
E da quello che scrive, sembra che qualcosa dentro di lei abbia già iniziato a muoversi in questa direzione.

Resto a disposizione, un caro saluto
E.S. 

Dott.ssa Elisa Scuderi
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