Come capire quando cambiare psicoterapeuta?

buonasera dottori, scrivo in merito ad una seduta che mi ha lasciata particolarmente scossa.

Senza dilungarmi nei particolari della mia storia, sono stata per 7 anni (17-23) in cura da una terapeuta sistemico relazionale.
A Gennaio abbiamo deciso di comune accordo di concludere il nostro percorso, in quanto lei era ormai diventata per me quasi una figura familiare.

HO poi iniziato a seguire un’altra terapia, sistemico relazionale.

Da qualche mese, in seguito ad un attacco di panico molto forte, sto avendo difficoltà ad uscire, ho iniziato ad evitare sempre più le situazioni che mi potessero causare ansia.
In più il mio umore è praticamente sotto i piedi, mi sento limitata ed impotente perché ogni tot giorni mi sento così stanca che mi è impossibile fare qualsiasi cosa.

Oggi ero molto provata e sono andata alla seduta disperata: mi sento bloccata da tutti i pensieri, spaventata e soprattutto preoccupata per il mio stato.

Preciso che in questi 3 mesi di terapia la mia situazione è progressivamente peggiorata, non che sia colpa della terapeuta assolutamente, è per questo che ho il dubbio che sia forse un mio problema.

Le ho chiesto come affrontare i pensieri intrusivi, la risposta è stata di fare qualcosa che mi piace e non stare a pensare.
Al che le ho spiegato che i pensieri mi arrivano, appunto, involontariamente e mi spaventano, lei mi ha detto di non pensare ma di fare.

Io le ho spiegato che sono arrivata a stare a casa perché anche quando esco e affronto l’ansia ho l’umore talmente basso che mi sembra di non capire più cosa effettivamente può farmi stare bene.
Lei mi ha risposto che il mio umore è così basso proprio perché sto a casa, che sto avendo una regressione a uno stato infantile (dicendomi che lo conferma anche la mia scelta di ricominciare l’università) e che devo smetterla di aspettarmi che qualcuno venga a salvarmi perché devo tirarmi io su e vivere, che devo scegliere la vita e capire cosa mi piace.
Che poi i farmaci mi faranno sentire meglio con l’umore e potremo capire le cause di questo mio non voler crescere.

Io sono uscita dalla seduta devastata.
Perchè queste cose le so già e appunto perché mi sento di non star facendo abbastanza, ma mi aspettavo dei consigli diversi per imparare a gestire i miei momenti sia di ansia dovuti ai pensieri sia proprio di depressione o quello che è.

In più le ho detto che ho molta paura che i miei amici mi lascino sola perché appunto sto sempre male e lei mi ha risposto che con loro non devo parlare del mio malessere ma della vita.
Che la gente poi si scoccia di sentire lamentarsi.

Ora, io sono consapevole che tutte queste cose sono vere, la mia domanda è, mi aspetto troppo dalla terapia?
l’approccio è sbagliato per ciò che cerco?
Sono io a non volere sentire la verità?

Perché dopo tutto ciò io sinceramente 1 sono ancora più spaventata e avvilita e 2 mi sento come se le mie difficoltà fossero sottovalutate.

Sbaglio io?
Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.8k 200
Gentile utente,
ho letto tutte le sue email. In quest'ultima la ragione del suo disagio emerge chiara alla fine, nella frase: "mi sento come se le mie difficoltà fossero sottovalutate".
Penso alla permanenza del suo disturbo malgrado le cure; alla prima terapia durata ben sette anni e conclusa per una ragione inverosimile: "lei era ormai diventata per me quasi una figura familiare" -perché mai questo dovrebbe precludere l'efficacia della terapia?-; alle osservazioni che fa sull'ulteriore terapia, ancora una volta, guarda caso, sistemico-relazionale, e mi chiedo:
- Cosa si aspetta da una terapia, e cosa sta davvero "curando"?
Il fatto che scelga dei sistemici-relazionali fa pensare che abbia dei problemi familiari mai realmente metabolizzati e si aspetti dal terapeuta una modifica, non di lei stessa, ma delle figure parentali che ha intorno.
- Se questo è vero, probabilmente lei non si impegna a lavorare su di sé, ma vuole dal terapeuta soltanto comprensione per lei stessa e biasimo per i "cattivi" che le hanno fatto del male. Anche il farsi pagare, presumo dai genitori, una lunghissima e vana terapia, rimanda ad una forma di vendetta.
- In quest'ottica, tutti i malesseri che prova hanno la funzione di "accuse" verso chi non si comporta come lei vorrebbe. Non a caso ha avuto un attacco di panico particolarmente intenso quando il suo ex le ha detto che non vuole di nuovo provare a stare con lei. Del resto lei non manifesta un profondo attaccamento per quest'uomo, tanto è vero che si meraviglia, in una delle sue email: "mi sembra impossibile che una relazione mi abbia fatto tutto questo".
Infatti non è il dolore di un amore non corrisposto a farle male, ma il bisogno che tutto e tutti vadano nella direzione da lei voluta.
Quello che ci riferisce degli psichiatri consultati e mai seguiti nelle prescrizioni farmacologiche è significativo: chi vuole guarire si cura; chi invece vuole usare la malattia come accusa verso altri si fa visitare, compra i farmaci, ma poi non li prende, perché è già appagato dal pensiero: "Guarda cosa mi tocca, per colpa di quello che mi hanno fatto!"
Analogamente lei chiede se le occorrerebbe una terapia cognitivo-comportamentale, ossia una terapia dirigista, ma poi si guarda bene dal seguirla; infatti intuisce che l'attuale terapeuta ha usato proprio un metodo direttivo per istradarla a capire i suoi disturbi e per darle le strategie per superarli.
Rilegga quello che ci ha scritto e noterà che le indicazioni della terapeuta sono proprio questo: una mano tesa per tirarla fuori dal pozzo, sempre che lei voglia aggrapparsi a questa mano, e non continuare ad avvoltolarsi nelle acque torbide.
Coraggio. Forse la soluzione è vicina. Ricordi sempre che nessun mutamento è possibile se non è il paziente stesso a volerlo, e a lavorare su di sé, anche soffrendo, per realizzarlo.
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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Utente
Dottoressa, innanzitutto la ringrazio per la risposta e per i preziosi spunti di riflessione. Sono consapevole della mia forte resistenza allo star bene , come sé questa situazione fosse ormai una zona di comfort. E mi spaventa molto questa cosa, a dirle la verità.
La terapia che ho seguito per anni l’ho pagata da sola, come tutte le visite dagli psichiatri e il resto, le assicuro che fosse per me seguirei ancora la mia terapeuta, e la ritengo una terapia andata a buon fine. Se ho scelto di seguire un’altra terapia dello stesso tipo è perché mi è stato detto che non contasse l’orientamento, bensì la relazione terapeutica per il superamento di qualsivoglia problema.
Le parole usate in seduta mi risuonano, assolutamente, sennò non sarei qui a chiedere, il problema è che i pensieri ossessivi intrusivi, la mia condizione emotiva mi spaventano molto, ci rimargino continuamente e molto spesso non basta fare qualcosa per distrarmi, per questo pensavo alla cognitivo comportamentale, che mi desse gli strumenti per ritrovare una serenità che fosse un po’ più a lungo termine.
Sono consapevole di starmi autosabotando, anche se riconosco di starmi in qualche modo muovendo, anche se impantanandomi un po’ da sola. Come con i farmaci, di cui ho molta paura e per cui riconosco che sto facendo fatica a fidarmi anche del professionista che mi segue.
La ringrazio comunque per la speranza, spero che la soluzione sia vicina, spero tanto di trovare un modo per stare bene.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.8k 200
Certamente lo troverà, attivandosi nella direzione giusta.
Per il rimuginio, uno dei consigli che ho trovato utili per le persone che seguo è questo: quando si presenta un pensiero molesto gli dia "appuntamento" per una certa ora del giorno in cui sa di avere un po' di tempo e lo mandi via fino ad allora, con fermezza.
Ovviamente questo è tanto più fattibile quanto più una persona è regolarmente impegnata in altro. Altrimenti deve cercarsi sul momento un'occupazione alternativa, per esempio uscire, telefonare ad un'amica, leggere un articolo, fare qualcosa che aveva accantonato, etc., come le ha detto anche la sua terapeuta.
All'ora stabilita richiami il pensiero molesto davanti ad un foglio bianco e butti giù tutto quello che le viene in mente, ma con un contaminuti, concedendo al pensiero un tempo definito, per esempio mezz'ora.
Lo tratti insomma come se fosse un lavoro, non uno stalker!
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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Grazie mille, mi allenerò a fare così, imponendomelo . Io invece mi ripeto che mi sento di fare le cose con la radiolina accesa dei miei pensieri in testa e mi ripeto che se non li assecondo, il volume si abbasserà.
È normale che mi causino questa sensazione di angoscia e paura, come se stesse per succedere qualcosa di terribile? Non devo preoccuparmi e lasciarli lì?
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 4.8k 200
No, li deve congedare e rimandare ad una certa ora, come farebbe con qualcuno che le chiede un appuntamento.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com

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