Sto andando dal nutrizionista ma non riesco a seguire la dieta

Salve, sono un ragazzo di 27 anni e da qualche mese ho deciso di andare da un nutrizionista per una dieta "ingrassante" perché mi ritrovo in una condizione di sottopeso.

Il problema è che abbiamo provato di tutto, pensavo che il problema fosse lo studio etc.
, ma semplicemente non riesco ad avere quell'appetito che mi serve per mangiare 3.000 calorie al giorno che mi servono per aumentare di kg.

Il mio rapporto con il cibo è sempre stato molto particolare, ci sono giorni che mangio molto ed altri in cui riesco a stare da mattina a sera senza mangiare nulla o comunque pochissimo, e per me mangiare 6 volte al giorno è qualcosa di troppo forzato, soprattutto perché i cibi sono molto calorici.

Vorrei smettere appunto la dieta ma ogni volta il nutrizionista mi inganna e mi "costringe" a non perdermi, io ci ricasco ma alla fine non concludo niente.

Non so come affrontare questa situazione, fisicamente non mi piaccio, ma non riesco nemmeno ad avere quella costanza che mi porta ad avere un fisico "normale".
Dr.ssa Elisa Scuderi Psicologo 114 2
Gentile Utente,
quello che descrive sembra non riguardare soltanto il "quanto" o il "cosa" mangiare, ma sembra toccare un equilibrio più ampio: il rapporto che ha con il cibo, con il corpo e con la costanza.

Mi colpisce il modo in cui alterna periodi di abbondanza a giornate quasi di digiuno, come se il cibo non fosse solo nutrimento ma anche il riflesso di stati interni, energie, motivazioni. Si è mai chiesto cosa accade, dentro di lei, nei giorni in cui riesce a mangiare molto rispetto a quelli in cui quasi non tocca cibo? È una questione di fame fisica, di pensieri, di emozioni o di altro?

Anche il legame con il nutrizionista appare complesso: dice che si sente "ingannato" e "costretto" a non mollare, e al tempo stesso riconosce che parte di lei ricade nel tentativo. Cosa significa per lei sentirsi spinto da qualcun altro, piuttosto che decidere di farlo per sé?

Forse la domanda non è soltanto "come aumentare di peso", ma "quale relazione voglio costruire con il mio corpo e con il cibo, e da dove partire per renderla più mia, meno imposta?".

Accanto al percorso con il nutrizionista potrebbe essere importante avviare un percorso psicologico, per comprendere cosa le impedisce di avvicinarsi con serenità e continuità a quell’obiettivo. È in quello spazio, tra ciò che desidera e ciò che riesce a fare, che spesso si trovano le risposte più importanti.

Spero che queste riflessioni possano esserle utili.

Resto a disposizione, un caro saluto
E.S.

Dott.ssa Elisa Scuderi
Psicologa | A Genova e online
📧 elisascuderi.ge@gmail.com
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www.psicologoagenova.wordpress.com

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Utente
Utente
Il mio rapporto con il cibo non è complicato, certo come tutti ho i cibi che preferisco ed i cibi che non mi piacciono.
Probabilmente i problemi alimentari, se così vogliamo definirli, penso siano nati da bambino, quando come tutti i bambini avevo voglia di mangiare un cibo piuttosto che un altro, ma i miei genitori mi imponevano di mangiare certi cibi e tutt'oggi funziona così; mia madre ad esempio continua a cucinare cose che non ho mai mangiato in vita mia, mi sto avvicinando ai 30 anni ma per loro evidentemente sono rimasto un bambino viziato che vuole il cibo che vuole lui.

Detto questo il problema sta nella costanza, per me è un peso seguire l'orologio biologico, ma non tanto questo quanto il fatto che le giornate sono tutte diverse l'una dalle altre, sia per impegni che a livello emotivo, quindi appunto il mio appetito cambia totalmente in base a tutti questi aspetti che entrano in gioco, ma anche lo stesso sedermi a tavola e rilassarmi per me è difficile, perché è come se la vivessi come una sfida, inizio ad avere delle specie di palpitazioni e non vedo l'ora di alzarmi e di andare via, tranne quando magari sono in giro a mangiare con gli amici.
Quindi presuppongono che c'è un meccanismo inconscio in cui c'è un evitamento del cibo associato alla mia casa, e fin quando non andrò a vivere da solo avrò sempre questo rapporto malato con il cibo
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Dr.ssa Elisa Scuderi Psicologo 114 2
Gentile Utente,
la ringrazio per aver condiviso con così tanta onestà il suo vissuto. Le sue parole raccontano molto più di un semplice "rapporto col cibo": parlano di confini, di autonomia, di riconoscimento.

Non è raro che ciò che da fuori appare come una difficoltà alimentare, sia in realtà il linguaggio con cui il corpo prova a raccontare qualcosa che, a parole, è difficile da esprimere. Lei descrive con chiarezza un ambiente in cui il suo desiderio, anche quello più semplice e quotidiano come scegliere cosa mangiare, è stato spesso messo in secondo piano. Questo può generare, nel tempo, una profonda fatica a sentire e legittimare i propri bisogni, anche quando si tratta di qualcosa di apparentemente "banale" come avere fame.

Dice che "per gli altri" è ancora un bambino viziato. Le è mai capitato di chiedersi che bambino era davvero e cosa cercava di comunicare quando rifiutava certi cibi?

Anche il fatto che mangiare, in casa, le provochi agitazione, palpitazioni, un senso di sfida, può indicare che il pasto non è mai stato solo un momento nutrizionale, ma un teatro emotivo in cui si sono giocate dinamiche complesse: forse controllo, forse sottomissione, forse invisibilità.

E poi c’è un passaggio molto importante: lei nota che tutto cambia quando è fuori, con gli amici. Come se in quei momenti qualcosa si distendesse. Cos’è che lì si sente libero di essere, che in casa le è precluso?

A volte non è tanto il cibo il nodo, quanto la storia che il cibo custodisce. E per sciogliere quella storia, forse, non serve aspettare di andare via da casa, ma iniziare, dolcemente, a cambiare lo sguardo con cui la si osserva.

Il punto non è solamente forzarsi a "mangiare di più", ma capire che significato ha oggi, per lei, nutrirsi. E da dove potrebbe partire, per iniziare a farlo in un modo che finalmente la rispetti.

Resto a disposizione, un caro saluto
E.S.

Dott.ssa Elisa Scuderi
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